5 – Economia e sviluppo

economia3 CAPITOLO VI

LE TEMATICHE ECONOMICHE

     La scienza del buon governo, al contrario della scienza politica, non si disinteressa delle tematiche economiche, in quanto le ritiene strettamente connesse con quelle sociopolitiche. Ad esempio, è possibile ampliare lo stato sociale, solo se il bilancio dello stato lo permette, ma sarà impossibile in presenza di un debito pubblico molto elevato. Altro esempio, è naturale aspettarsi un aumento della criminalità quando la disoccupazione raggiunge livelli allarmanti o se non si tengono sotto controllo i flussi di immigrazione.

In effetti, una conoscenza approfondita dell’economia e della politica economica dovrebbe costituire la preparazione di base di un buon politico. Chi è a digiuno di economia, sicuramente non sarà neanche un buon politico, in quanto tutte le problematiche, in ultima analisi, sono riconducibili a problematiche economiche. Non si può sedere in parlamento senza conoscere le regole del mercato, le misure per tenere sotto controllo l’inflazione e come si fissa il tasso ufficiale di scambio della propria valuta, in quanto sono tutte cose che hanno una grande influenza sulla nostra vita quotidiana (ad es. determinano i prezzi dei beni di ampio consumo). Per questo ripetiamo, in un paese non deve essere solo il Ministro dell’economia a possedere certe conoscenze, elementi di economia dovrebbero essere parte del normale bagaglio culturale di ogni politico.

Per le risposte a questo tipo di tematiche, ovviamente, la scienza del buon governo si serve dell’esperienza e delle conoscenze “accumulate” dall’economia politica, disciplina che ha ormai più di 300 anni di storia. La sua nascita, intesa come disciplina separata dalla filosofia e dalla teoria della politica, infatti, si fa generalmente risalire al 1776, anno in cui Adam Smith pubblicò le “Ricerche sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni”. Pur servendosi di essa, però, i politologi della sbg non se ne fidano ciecamente, non essendo una scienza esatta. Partiremo, infatti, proprio da questo punto.

 

L’ECONOMIA È UNA SCIENZA?

    Winston Churchill, il famoso statista inglese, sintetizzava con una battuta la sua poca fiducia nella scienza economica: “Se mettete due economisti in una stanza, avrete due pareri diversi, se poi, uno dei due è Keynes, i pareri saranno tre”. Il premio Nobel Samuelson, il cui manuale di economia è stato per moltissimi anni il più studiato nelle migliori università americane scrive: “L’economia non è una scienza esatta, tuttavia è più che un’arte. Non siamo in grado di prevedere con grande precisione il reddito nazionale del prossimo anno, così come metereologi non sono in grado di prevedere le previsioni meteorologiche della prossima settimana, ma nessuno banca o grande impresa sarebbe così sconsiderato da consultare astrologi, anziché degli economisti”. Come dire l’economia è senz’altro una disciplina su base scientifica, ma non dobbiamo mai dimenticare che non si tratta di una scienza esatta. Il problema è che spesso ci comportiamo come lo fosse e consideriamo il parere degli economisti come verità scientifica. Al contrario, noi tutti, ad incominciare dai politici, dobbiamo iniziare a renderci conto che si possono sbagliare. In economia, non esistono certezze, come in matematica, dove 2+2 fa 4, senza ombra di dubbio.

Le ragioni che ci spingono a una tale conclusione sono soprattutto quattro:

1) L’economia è una disciplina in continua evoluzione. In un periodo prevalgono gli economisti di una corrente, in un’altra quelli che la pensano in modo opposto. Oggi, ad esempio, prevalgono quelle correnti neolibeliste che guardano con forte sospetto alla proprietà pubblica e sostengono che bisogna limitare al minimo l’intervento dello Stato, domani non si sa. Le scienze esatte, invece, a parte qualche caso rarissimo di scoperte sensazionali, sono statiche, nel senso che le leggi, ad es. della fisica, individuate restano le stesse per sempre.

 

2) Gli economisti spesso esprimono opinioni diverse. È un fatto ormai ammesso anche dagli stessi economisti. “Gli economisti hanno la reputazione di litigare spesso tra loro” P. Krugman, 2008. “Gli economisti come categoria, sono spesso criticati per la contraddittorietà dei loro consigli che danno ai governanti. Ronald Reagan, presidente degli USA, amava affermare scherzosamente che un Trivial Pursuit per economisti avrebbe solo cento domande, ma tremila risposte”. Mankiw, 2007. Ecco, poi, cosa scrive Samuelson: “Il credito di cui gode la rispettabile categoria degli economisti è tutt’altro che indiscusso. Non senza ragione, a giudicare dal gran numero di pasticci che hanno combinato nel passato. Eppure gli economisti continuano a lamentarsi della scarsa considerazione in cui sono tenuti i loro pareri e continuano a dare consigli su come uscire dalle crisi, crisi che talvolta essi stessi, con i loro suggerimenti, hanno contribuito a produrre.”

 

3) La storia economica ci insegna che gli economisti commettono spesso errori. L’esperienza storica, purtroppo, non parla a favore degli economisti. Se si dà uno sguardo agli anni indietro, a cominciare dalla fine dell’Ottocento, ci si può rendere conto che non ci si può fidare affatto del loro giudizio.

Nel ‘900 gli economisti hanno patrocinato le più diverse strategie economiche. Prima hanno fornito copertura alle politiche del laissez faire (cioè il non intervento dello Stato), incappando nella grande crisi del ‘29, hanno quindi assecondato il rovesciamento del liberalismo in chiave nazionalista e corporativista, finito disastrosamente con la sconfitta bellica del nazismo e del fascismo. Hanno, poi, idolatrato, almeno fuori dagli USA, l’economia pianificata centralizzata per, poi, voltarle spalle dopo la caduta del comunismo.

Nel dopoguerra, hanno esaltato il “welfare state” come risposta occidentale alla sfida comunista, per poi cambiare parere negli anni ’80, mostrando nei confronti dello Stato sociale addirittura un fastidio fisico. Negli ultimi anni, fino al 2008, infatti, gli economisti non hanno fatto che chiedere di ridurre i servizi sociali in nome delle riconclamate virtù della mano invisibile del mercato, ossia nei limiti concessi dalla competizione globale.

Tutto è, poi, cambiato con la crisi finanziaria del 2008, quando è diventato lecito persino nazionalizzare le banche (è successo in Gran Bretagna, non in Africa). Una politica ritenuta blasfema fino a pochi anni prima, quando i neoliberisti, la corrente prevalente al momento, condannavano assolutamente qualsiasi tipo di intervento dello Stato nel mercato.

“Oggi si sta ricominciando di nuovo a dire che bisogna ristabilire la supremazia della politica sui mercati, regolandoli fortemente sia a livello nazionale che internazionale” (il sole 24 ore, 20/5/2009). E non sono pochi gli economisti convinti che questa crisi porterà a una benvenuta svolta interventista e dirigista. La crisi del ’29, infatti, fu causata soprattutto da grossi errori di politica economica che trasformarono un aggiustamento dei mercati finanziari in una tragedia per l’economia reale. Lo stesso crollo di borsa fu in parte accentuato da sbagli di politica monetaria (sempre dal “sole 24 ore”, 20/5/2009).

In effetti, gli economisti nel passato hanno dimostrato tante volte di non essere infallibili. Il sommo Keynes, ad esempio, prese cantonate memorabili, di cui per sua fortuna oggi nessuno più si ricorda. Ad esempio, nel 1920 rischiò di finire sul lastrico, trascinando con sé gli amici, speculando sull’ulteriore caduta del marco. Invece la moneta tedesca mostrò una sorprendente ed energica ripresa, che Keynes e gli amici economisti giudicarono contro ragione.

Il 24 ottobre 1929 crollò la borsa di New York. Il giorno seguente Keynes dichiarò che “il futuro era decisamente incoraggiante”, era invece l’inizio della più grande crisi mondiale dei tempi moderni. Crisi che egli teorizzò, ma soltanto nel 1936. Essa pure fu irrazionale. Quando gli economisti non ci azzeccano, infatti, è colpa della realtà che non segue la logica. Franco Modigliani, il “nobelissimo” studiò una formula per guadagnare in borsa, ma il valore delle azioni non tenne conto della sua formula e per almeno un decennio restò sotto i prezzi del 50%. La sua spiegazione fu che mentre in uno spettacolo televisivo, vince chi indovina il prezzo giusto, in borsa chi punta su quello sbagliato.

Un altro premio Nobel per l’economia Robert Solow, di fronte a due teorie contrastanti affermò: “Si possono condividere o meno. Personalmente appartengo a entrambe le scuole.” Quando alle tautologie, celebre quella dell’economista William Baumol: “Il futuro è davanti a noi”.

La storia economica, in effetti, ci ha insegnato che gli economisti non sempre sono affidabili. E non si consideri tutto ciò come acqua passata, cioè appartenente a un tempo in cui l’economia non era sviluppata ed informatizzata come oggi, perché tuttora gli economisti, un po’ in tutto il mondo, continuano a commettere errori. In Europa, ad esempio, ci siamo avventurati nell’esperimento della moneta unica, unico caso nel mondo, ignorando gli avvertimenti degli economisti classici che in questi casi prevedevano due condizioni precise: la creazione di una Banca Centrale, e ciò è stato fatto, e l’unificazione politica degli Stati, ma siamo ben lontani dall’aver realizzato questa seconda condizione.

Inoltre, mentre certi paesi emergenti, come la Cina, applicano con grande furbizia le regole del capitalismo (ad esempio, il governo di Pechino tiene deliberatamente basso il tasso di cambio della propria moneta in modo che le esportazioni continuano a funzionare da volano per la propria economia), noi siamo ancora impegnati nella costruzione di un’Europa Unita, che non si sa né quando, né come, né se vedrà mai la luce.

    Ma l’esempio più significativo di quanto poco ci si può fidare degli economisti ci è dato dalla crisi finanziaria scoppiata nel 2008, per colpa delle banche tutte dirette da insigni economisti. Tutti sanno che il credito non può essere espanso all’infinito, ma negli Usa per decenni si è continuato ad erogare prestiti facili a persone che non sempre erano in grado di restituirli. Alla fine la bolla è scoppiata, gettando il mondo intero nell’attuale crisi, che è stata giudicata la più grave dopo quella del ’29. Forse sarebbe bastata una precauzione molto semplice: alzare il tasso di riserva minima obbligatoria per i depositi a vista dal 10%, com’è oggi negli USA, al 20%, e l’attuale crisi finanziaria mondiale quasi sicuramente non sarebbe mai scoppiata.

I profani devono sapere che se una persona deposita $ 100 in banca, quest’ultima, sempre negli Stati Uniti da dove è partita la crisi, trattiene $ 10 e ne presta 90 a una seconda banca. La seconda banca ne trattiene nove e ne presta 81 e così via. Questo processo di creazione di moneta è chiamato moltiplicatore monetario. Ebbene, alzando il tasso di riserva minima obbligatoria si sarebbe dimezzato quest’effetto moltiplicatore, ciò forse sarebbe stato sufficiente per fermare le banche prima del crollo. E anche se ci fosse stato lo stesso, le conseguenze sarebbero state molto meno gravi, in quanto la stragrande maggioranza delle banche avrebbe potuto contare su una liquidità notevolmente maggiore.

 

4) Non esiste un’unica scienza economica, ma tante scienze economiche quante sono le correnti di pensiero in cui si divide. Ad esempio il modo di pensare degli economisti keynesiani differisce sensibilmente dai monetaristi. I primi enfatizzano il ruolo chiave della politica fiscale, i secondi, al contrario, sono convinti della piena efficacia della politica monetaria. Secondo Laidler (1989) esistono 4 principali scuole di pensiero (la sintesi neoclassica, il keynesiano inglese, la nuova macroeconomia classica e il nuovo Keynesiano), ma a nostro giudizio sono di più.

L’opinione degli economisti, perciò, cambia molto a seconda della scuola di appartenenza. Per rendersi conto di ciò basta consultare due economisti di orientamento diverso su un problema monetario o economico. Sicuramente si avranno due pareri diversi, se non opposti. Ad esempio, mentre la stragrande maggioranza degli economisti europei ha salutato positivamente l’introduzione della moneta unica, l’euro, molti studiosi americani, a partire da Samuelson e William Vickrey (premio Nobel per l’economia), sono stati molto critici e c’è stato persino chi ha previsto che l’esperimento dell’euro finirà entro il 2020.

 

Il discorso sulla scientificità dell’economia politica ci porta a due conclusioni:

1 – L’economia è una disciplina su base scientifica, ma non è una scienza esatta. Non ha certamente la stessa scientificità della matematica o delle scienze naturali e di questo devono tenere conto i politologi. In altre parole non si può continuare a prendere per oro colato tutto ciò che dicono gli economisti, perché essi possono sbagliare. In effetti, occorre tenere presente il loro parere, ma essere anche coscienti che si tratta di un parere, non di “verità scientifiche”.

2 – La scelta dell’economista che deve guidare o meglio impostare la politica economica di una nazione non è una scelta di poco conto, ma è una decisione vitale per il futuro di un popolo. Nominare Ministro dell’Economia, ad esempio, un economista neoliberista, che crede poco nell’intervento dello stato, che a suo parere deve essere ridotto al minimo poiché produce solo inefficienze e corruzione, è molto diverso che nominare un keynesiano convinto che deve essere lo stato, con una politica di incentivi, a stimolare lo sviluppo economico. Come pure avere al governo un Primo Ministro fervido sostenitore del libero scambio con l’estero o un economista che crede nella necessità di proteggere in qualche modo le nostre industrie dalla concorrenza sleale di colossi come la Cina, può fare la differenza tra successo e fallimento.

E non ci si illuda che basta nominare un eminente economista con cattedra in una blasonata università, perché non è sicuro che conosca le risposte giuste.

LE PROBLEMATICHE ECONOMICHE PRIMARIE

    Le problematiche economiche di primaria importanza sono tre: due chiuse, nel senso che conosciamo già le risposte: l’economia pianificata e il libero mercato; e una aperta: intervento o non dello Stato. Vediamole insieme.

 

L’economia pianificata. La scelta tra economia pianificata e capitalismo, teoricamente sembra una problematica aperta, ma in realtà è ormai chiusa. La caduta del comunismo, che ha lasciato intere nazioni in miseria nell’est europeo, ha reso improponibile un ritorno a un modello di economia centralizzata. Anche la Cina, pur restando comunista, ha, in fondo, intrapreso la strada del capitalismo. Per questo motivo riteniamo che sia una questione ormai chiusa. Sentite che cosa scrive Aristotele quasi 3.000 anni fa e da allora non è cambiato molto: “Ciò che è collettivo viene scarsamente curato, perché gli uomini hanno grande riguardo per ciò che appartiene a loro, e pochissimo per ciò che possiedono in comunione con gli altri.” Non andiamo oltre perché ne abbiamo parlato in altre pubblicazioni: “La scienza politica, Mondolibri 2008”. Se, poi, in futuro emergeranno nuove forme di socialismo (noi stessi nel volume appena citato ne abbiamo indicata una, che abbiamo chiamato socialismo scientifico), si valuterà al momento. Per adesso il modello di economia comunista, centralizzato è improponibile.

 

L’economia di mercato. Anche questa è una problematica chiusa. Ovunque si è cercato di addomesticare il libero mercato o, addirittura, di sopprimerlo, si sono create le premesse per un disastro economico. L’esperienza storica ci ha insegnato che qualsiasi pesante interferenza dei governi sull’economia crea sprechi ed inefficienze. “Il meccanismo di mercato – sostiene Adam Smith uno dei padri dell’Economia – è un ordine naturale capace di autoregolarsi, perciò per adesso non esiste niente altro meglio che la “mano invisibile del mercato”. In effetti ogni individuo, nel perseguire il proprio tornaconto, è spinto, come da una mano invisibile, a operare per il bene di tutta la collettività.

Lo stesso Smith nella sua opera “La ricchezza delle nazioni” elencò innumerevoli casi di follie commesse dai governi. Esplorando la storia contemporanea ricavò esempi di come l’interferenza a fin di bene dei governi negli affari economici avesse avuto effetti catastrofici sulle nazioni. In effetti non siamo riusciti a inventare niente di meglio del mercato che svolge un’importantissima funzione regolatrice di tutta l’economia, chi pretende di fare meglio, non fa che procurare disastri economici.

È un principio, frutto degli insegnamenti degli economisti classici a partire da Smith, Ricardo ecc., che dovrebbe essere non solo imparato a memoria, ma scritto a caratteri cubitali all’ingresso di tutte le scuole di economia e che si può riassumere nella formula: “I mercati sono lo strumento più efficace per organizzare l’attività economica”, N. G. Mankiw, 2007. Purtroppo ogni tanto qualche governante se ne dimentica.

 

Intervento o non dello stato. La disputa tra neokeynesiani e neoliberisti è tuttora aperta. I primi sono convinti che lo Stato con i suoi interventi, con una politica di spesa pubblica, possa stimolare fortemente l’economia e promuovere lo sviluppo e la crescita. I secondi pensano che bisogna ridurre al minimo gli interventi dello Stato nell’economia arrivando ad enumerare fra i fallimenti del mercato i beni pubblici. In questo ultimo mezzo secolo, infatti, si è assistito prima al prevalere del pubblico sul privato, ora, al contrario, le posizioni stanno volgendo tutte a favore del privato in quanto cresce sempre più lo scetticismo circa la capacità dello stato di gestire in modo efficiente società o attività economiche.

Con la crisi finanziaria del 2.008, però, c’è stato quasi un capovolgimento di fronte. Quasi tutti gli Stati, ad incominciare dagli USA, sono intervenuti pesantemente sostenendo gli istituti di credito, impedendo a molte aziende di fallire (come la Chrysler) e addirittura nazionalizzando delle banche, come è successo in Gran Bretagna o in Irlanda. Si è trattato, però, di misure straordinarie e provvisorie e quando la bufera finanziaria si è calmata, si è tornato alla politica della non ingerenza dello Stato nell’economia.

In conclusione, la disputa tra intervento e non intervento dello Stato è ancora aperta, tuttavia la storia economica ci ha insegnato una cosa: ambedue le posizioni, almeno nell’interpretazione più estremista, sono sbagliate. È impossibile costruire un regime economico in cui lo Stato sia del tutto neutrale e non intervenga in nessuno modo sull’economia, allo stesso modo è improponibile un regime statalista, assistenzialista, basato ancora in buona parte sulla proprietà pubblica, perché un sistema economico che andrebbe in crisi dopo pochi anni, se non altro perché necessita di una forte pressione fiscale.

L’esperienza ci ha insegnato che la soluzione giusta è una via di mezzo, cioè l’economia mista, con privato e pubblico che convivono, anche se per adesso resta piuttosto difficile delineare con sicurezza una linea di confine: dove deve fermarsi l’azione dello stato e lasciare campo libero all’iniziativa privata. A nostro parere, è sbagliato dare indicazioni generali, cioè stabilire regole che valgono per tutti, ma è meglio valutare, caso per caso, dove può essere utile l’intervento dello stato e dove è bene lasciare fare alla mano invisibile del mercato. Ad esempio, nel 2.010 il governo irlandese intervenne per salvare il suo più importante istituto di credito “la Banca d’Irlanda” dal fallimento. Fu un’azione giusta, scarsamente criticata persino dai neo liberisti, ma ciò non deve portare a concludere che lo Stato deve salvare in ogni caso le banche dal fallimento. Prima di ogni intervento, perciò, è meglio valutare caso per caso, rifuggendo dallo stabilire regole generali.

 

LE FUNZIONI della PUBBLICA AMMINISTRAZIONE

     Le principali funzioni della pubblica amministrazione (ma sarebbe meglio dire di chi è al governo, in quanto sono scelte fatte dai politici, non da chi è al vertice delle amministrazioni. È un modo di dire nato negli Usa perché lì, infatti, la p.a. coincide con il governo), in una moderna economia sono:

1 – Stabilire la cornice legale. La principale funzione della pubblica amministrazione è creare la cornice legale, ossia stabilire le regole del mercato, che comprendano la definizione della proprietà, le leggi sui contratti e sui fallimenti, i diritti di autore e una moltitudine di norme che regolano tutti gli aspetti della vita economica della nazione. I mercati sono il metodo più efficiente per regolare l’economia sempre che esso si svolga in un quadro di regole. In effetti, la pubblica amministrazione ha un ruolo fondamentale in quanto sono necessari tribunali e forze di polizia per assicurare l’esecuzione dei contratti, il comportamento non fraudolento e non violento, la protezione contro il furto e l’aggressione esterna e l’efficacia dei diritti di proprietà, le norme sui fallimenti e tutti i possibili motivi di concorrenza sleale. Lo Stato deve proteggere le aziende serie, quelle che pagano le tasse e basano le proprie strategie commerciali sulla ricerca e sull’innovazione. Se un’azienda, ad esempio, per ottenere il pagamento di una fornitura deve ricorrere al tribunale e il processo dura 10 anni, come in Italia, tutto il sistema economico ne risente pesantemente.

2 – Regolamentare il mercato del lavoro. Lo stato ha anche il dovere di regolamentare l’attività produttiva anche attraverso l’emanazione di leggi, tra cui quelle relative al rapporto di lavoro e agli accordi tra imprese. Negli stati moderni questo compito spetta al Ministero del lavoro.

3 – Organizzare la Pubblica Amministrazione. Un paese ha bisogno anche di efficienti strutture amministrative che devono essere organizzate nel modo migliore e a cui vertici devono essere chiamate persone altamente professionali. In pratica ogni ministero ha i suoi “uffici”, il cui compito è quello di far funzionare bene il settore in cui opera. Ad esempio, l’ufficio immigrazione si interessa di rilasciare i permessi di soggiorno agli stranieri che hanno i requisiti indicati dalla legge.

4  – Provvedere alle infrastrutture. Uno Stato moderno per funzionare ha bisogno di efficienti infrastrutture: strade, porti, aeroporti, ferrovie, sistemi di telecomunicazione scuole ecc.. Questo compito negli stati moderni in parte è affidato al Ministero dei lavori pubblici, in parte agli enti locali.

5 – Regolare il commercio con l’estero, cioè l’insieme degli scambi di beni fra nazioni: prodotti finiti, prodotti semilavorati utilizzati nella produzione di altri beni o prodotti agricoli e derrate alimentari, in modo che importazioni ed esportazioni grosso modo si bilancino e non si creino forti disavanzi nella bilancia dei pagamenti. Ne parleremo nel capitolo sul commercio con l’estero. 

 

     La pubblica amministrazione. Aver degli uffici pubblici che “lavorano” bene è fondamentale per la vita economica di uno stato, oltre che ad essere un ottimo biglietto da visita per chi viene dall’estero. Un’ottima strategia per raggiungere questo scopo è quella di copiare l’efficienza delle imprese private, dove esistono controlli a vari livelli e dove ognuno è motivato a fare bene il proprio dovere.

Ecco le principali linee guida da tenere presente.

Criteri meritocratici. Le assunzioni devono avvenire tramite concorsi pubblici seri, non secondo logiche clientelari. Chi è assunto in base a meriti “politici” spesso è poco preparato per il suo ruolo, e non si di impegna più di tanto sul lavoro.

Le promozioni devono avvenire per meriti, con corsi di preparazione ed esami, anziché in base alle raccomandazioni. Per far carriera non deve essere necessario cercarsi un protettore politico.

Premi di produzione. Devono servire ad incentivare la produttività e scoraggiare la mancanza di impegno, come pure bisogna combattere l’assenteismo.

Controlli e sanzioni. Ci deve essere un organismo interno che verifichi l’operato degli impiegati, come pure le sanzioni devono essere adeguate. Non solo, ma i dirigenti devono essere chiamati  a risponderne se la produttività è bassa nel loro settore. In altre parole non devono essere inamovibili, ma vanno rimossi se si rivelano inetti e incapaci.

LA POLITICA ECONOMICA

    Il termine politica economica comporta l’insieme di misure adottate dai poteri pubblici al fine di regolare l’andamento dell’economia di un paese. Le misure riguardanti l’economia nel suo complesso fanno parte della macroeconomia, mentre quelle che agiscono in ambiti specifici, ad esempio in agricoltura, rappresentano elementi di microeconomia. Per procedere in modo razionale abbiamo diviso i problemi economici in problematiche. In questo campo, per fortuna, come abbiamo accennato precedentemente, il compito della scienza del buon governo è molto facilitato dal fatto che si può avvalere degli studi e dell’esperienza della scienza economica e della politica economica, discipline che hanno quasi 3 secoli di storia. È utile che ricordare che non si tratta di scienze esatte e che perciò le indicazioni qui riportate sono solo “indicazioni”. “I macroeconomisti sono come i medici che cercano di sconfiggere il cancro: ormai ne sanno molto, ma hanno ancora molto da imparare”, O. Blanchard, 2009.

 

IL DICASTERO DELL’ECONOMIA

    Il Ministero dell’economia o della programmazione economica, nel nostro modello, è una specie di super ministero che dirige e coordina tutti gli altri ministeri economici.

Le problematiche macroeconomiche sono di competenza dei seguenti Ministeri:   

1 – Ministero dello Sviluppo Economico.

2 – Ministero dello Tesoro (si interessa soprattutto di politica monetaria);

3 – Ministero delle Entrate (imposizione fiscale e controllo del bilancio dello stato).

4 – Ministero del Commercio con l’estero (scambi commerciali).

 

Microeconomia. Per le problematiche microeconomiche, invece, sono previsti ben 5 Ministeri:

1 – Ministero Dell’agricoltura, allevamento e foreste (settore primario);

     2 – Ministero della pesca  (pesca e acquacoltura).

3 – Ministero dell’Industria e dell’Artigianato (settore secondario);

4 – Ministero del Commercio e dei trasporti (settore terziario);

5 – Ministero del turismo, delle belle arti e dei beni archeologi.

Perché tanti ministeri.  L’esperienza ormai ci ha insegnato che è più proficuo nominare un Ministro per ogni settore, piuttosto che accentrare tutti i compiti nelle mani di un solo Ministro. Il vantaggio non è la moltiplicazione delle cariche o delle poltrone, secondo logiche clientelari così diffuse in paesi come l’Italia,  ma quello di avere un esperto che si dedichi a tempo pieno alle problematiche inerenti quel settore. Ad esempio, è utile avere un Ministro che si occupi specificamente di turismo, perché in questo modo c’è qualcuno che periodicamente contatta gli albergatori, le agenzie di viaggio, le compagnie aree, le associazioni dei ristoratori, gli enti locali ecc., insomma cerca di promuovere tutte le iniziative che possono rilanciare il turismo e di rimuovere tutte le cause che lo frenano. Al contrario, accentrare il potere in poche mani vuol dire che inevitabilmente il Ministro in questione trascurerà alcuni settori o non avrà tempo per portare avanti iniziative lodevoli o per ascoltare le esigenze  provenienti dalla base.

 

GLI OBIETTIVI MACROECONOMICI

       Gli economisti nel valutare il successo di un sistema economico guardano principalmente quattro aree: produzione, occupazione, stabilità dei prezzi e commercio internazionale. Chi è al governo si deve preoccupare di contrastare fenomeni negativi come la stagnazione, la depressione e altre gravi patologie che possono colpire un sistema economico. Altro scopo prioritario è in contenimento del tasso di disoccupazione. Oggi non si tollera che una parte del popolazione non abbia un lavoro. Non sempre lo sviluppo, infatti, si coniuga con la piena occupazione, perciò crescita economica, ma anche un livello di bassa disoccupazione.

Il tenore di vita. La ragione principale per cui gli economisti si preoccupano della crescita è dovuto al loro interesse per il tenore di vita. Osservando il trascorrere del tempo sono interessati a sapere quanto è aumentato il tenore di vita. È questo, infatti, uno dei parametri per valutare il successo di una politica economica. Osservando i vari paesi del mondo interessa sapere quanto maggiore è il tenore di vita di un paese rispetto a un altro. In altre parole, una dei della variabili più importanti su cu si concentrano, confrontandola nel tempo, è il prodotto pro capite, ossia il potere di acquisto di ogni cittadino.

Ma andiamo con ordine, incominciamo dagli obiettivi che deve porsi un bravo Ministro dell’economia.

 

     GLI OBIETTIVI: Secondo il premio Nobel per l’economia, Paul Samuelson, i principali sono quattro:

1° Obiettivo: L’Efficienza dei mercati. I mercati possono essere inefficienti per svariati motivi. In questi casi si parla di fallimento del mercato. Compito di una politica economica intelligente è rimuoverli.

     2° obiettivo: la Crescita economica. È l’obiettivo primario di ogni politica economica, promuovere lo sviluppo, aumentare la produzione e ridurre la disoccupazione. Data la vastità dell’argomento ne parleremo a parte, nel capitolo IX.

    3° obiettivo: l’Equità sociale. I mercati possono essere efficienti, ma produrre nello stesso tempo grandi disuguaglianze per questo uno degli scopi principali dei governanti è promuovere l’equità sociale. “Il sistema economico non deve essere solo efficiente, ma anche equo, cioè la distribuzione delle ricchezza deve essere ragionevolmente bilanciata” Krugman, 2008.

     4 obiettivo: La Stabilita macroeconomica. Uno dei principali compiti del governo è contenere l’inflazione, mirando a un livello di prezzi stabili o lievemente crescenti. Ne parleremo nei capitoli VII, sulla politica monetaria, e nel capitolo VIII sulla politica fiscale.

 

A nostro giudizio non sono gli unici obiettivi, ce ne sono altri, vediamo quali:

Promuovere progetti costosi. Lo Stato deve promuovere il conseguimento di progetti molto costosi, con benefici a lungo termine, non appetibili per il privato. Non stiamo parlando di opere pubbliche, in quanto nel nostro schema sono di competenza del Ministero dei lavori pubblici, ma di quei settori industriali o di ricerca tecnologica che bisognano di grandi capitali oppure in cui è possibile vedere dei risultati soltanto tra 20 o 30 anni.  Un esempio di progetto costoso, con benefici a lungo termine è la fusione nucleare. Un settore che richiede grossi investimenti e molti anni per arrivare a un suo sfruttamento economico (infatti, ancora non si sono visti risultati concreti).

Far quadrare i conti dello stato. Regolare la pressione fiscale (o ricorrere ad altri strumenti) in modo che entrate ed uscite si bilancino. Dato che ormai nessuno si preoccupa più di portare il bilancio dello stato in pareggio, evitare almeno che il disavanzo non superi certi livelli e provochi un crollo di fiducia nei risparmiatori (così nessuno più è disposto a prestare soldi allo stato). Ne parleremo a proposito della politica fiscale.

– Controllare i settori strategici. Ci sono settori particolari, come quello minerario (oro, diamanti e uranio), il petrolio ecc. (stiamo parlando, però, di pochi e selezionati settori) che hanno dei margini di profitto enormi, per questo motivo non bisogna lasciarli in mano ai privati, in quanto è giusto che a beneficiarne sia tutta la nazione e non pochi privilegiati. Ad es. in alcuni paesi del terzo mondo queste risorse sono lasciate alle multinazionali, che sfruttano questa ricchezza, portandone poi i profitti all’estero, e non di rado la usano per scopi politici per corrompere o per influenzare la politica economica del governo. Il risultato è che le popolazioni locali non hanno alcun vantaggio dalle ricchezze naturali della propria terra. Certe materie prime devono rimanere di proprietà dello Stato, che, però, saggiamente ne affida l’estrazione a società private, solo in questo modo diventano una risorsa di tutti e i proventi non andranno a finire nelle tasche di pochi.

Soccorrere le aziende in crisi. È una vecchia questione che ancora oggi fa discutere gli economisti: lo stato deve correre in soccorso alle aziende in crisi o lasciarle chiudere, per cambiar ‘acqua al mercato, paragonando quest’ultimo a un acquario? Affronteremo l’argomento  nel capitolo IX, come promuovere lo sviluppo economico.

Impostare la politica energetica. Uno paese tecnologicamente avanzato ha bisogno soprattutto di energia, in quanto ormai funziona tutto elettricamente. Noi ci occuperemo di questa tematica nel capitolo: “Ministero dell’ambiente, politica energetica”.

I FALLIMENTI DEL MERCATO

     Le cause più comuni di inefficienza dei mercati secondo gli economisti sono 5: le esternalità, la concorrenza imperfetta, la concorrenza sleale, l’inefficienza distributiva e i beni pubblici.

 

1) LE ESTERNALITÀ. Nel linguaggio economico sono dette esternalità le conseguenze positive o negative di un’attività produttiva su un soggetto, individuale o collettivo, esterno all’attività stessa.

Le esternalità positive sono dette anche “economie esterne”; quelle negative sono dette anche “diseconomie esterne” o “costi esterni”. Un esempio classico di economia esterna sono i benefici che un’abitazione trae dalla prossimità di un parco o di un servizio di autobus. Una diseconomia esterna consiste, invece, in un danno che un soggetto subisce pur non essendo in nessun modo coinvolto nell’attività economica che lo ha causato. I costi ambientali dell’inquinamento sono l’esempio più importante significativo di esternalità, per questo motivo su questo volume parleremo soprattutto di questi (nel capitolo “l’ambiente e le risorse energetiche”).

     In questo caso la soluzione è abbastanza semplice, almeno dal punto di vista teorico: tutelare l’ambiente. Lo stato, attraverso l’azione degli enti preposti, ha anche il compito di stabilire gli standard di riferimento riguardo agli agenti e alle attività inquinanti (atmosferici, acustici, elettromagnetici, del suolo, delle acque), di predisporre i controlli e applicare le sanzioni verso coloro che non le rispettano. Nel nostro modello è un compito del “Ministero dell’ambiente”.

 

2) LA CONCORRENZA IMPERFETTA. L’esperienza ci insegna che i mercati libero -concorrenziali sono “efficienti” perché incentivano gli individui a impiegare le proprie risorse nella maniera più produttiva, cioè a puntare sull’innovazione e sulla ricerca e a migliorare l’organizzazione aziendale. L’esperienza, però, ci insegna anche che il libero mercato tende a soffocare se stesso. In un capitalismo senza regole e senza norme antitrust, nel giro  di 10 – 20 anni, a seconda delle circostanze, si formano numerosi monopoli. E anche nei settori dove ciò non succede, si possono costituire dei cartelli allo scopo di massimizzare i profitti. Lo stesso Smith sapeva bene che è difficile realizzare un mercato perfetto, e perciò sosteneva che deve esserci una continua vigilanza per garantire la concorrenza.

L’antimercato sono le forze che vogliono limitare il gioco della domanda e dell’offerta, possono essere sia gli Stati, sia le imprese private, spesso in coalizione tra di loro. I primi possono diventare unici produttori nazionalizzando interi settori, i secondi possono conseguire monopoli o sottoscrivere patti sotterranei tra le imprese dello stesso settore per danneggiare i consumatori, sono le famigerate intese.

In conclusione, lo stato deve difendere il libero mercato, che può essere soffocato in 2 modi: 1 – Con la creazione di monopoli, abuso di posizione dominante. 2 – Con la formazione di cartelli (concorrenza imperfetta), spessa originata dal corporativismo.

La politica mirante a contrastare questi due fenomeni è detta politica antitrust ed è ormai presente in tutti gli stati del mondo, negli Usa addirittura dal 1890.

 

     3) LA CONCORRENZA SLEALE. Il rispetto delle regole è importante per un motivo semplicissimo: perché costituisce una fonte di disparità e motivo di concorrenza sleale. Lo Stato deve proteggere le aziende serie, quelle che pagano le tasse e basano le proprie strategie commerciali sulla ricerca e l’innovazione. I fattori della concorrenza sleale possono essere diversi, i più importanti sono:

Contraffazioni. La violazione della proprietà intellettuale è uno dei motivi principali di concorrenza sleale, in quanto il mercato dei prodotti falsi o copiati è una piaga mondiale, che mortifica la creatività e danneggia duramente le aziende oneste, che vivono di innovazione. Bisogna usare tutti gli strumenti creati dal WTO per costringere tutti paesi che non rispettano i “diritti d’autore” a cambiare atteggiamento.

     Il contrabbando. Chi commercia o svolge attività economiche in “nero”, spesso non pagando tasse e utilizzando merce entrata di contrabbando nel paese, fa concorrenza sleale agli altri e li costringe a chiudere.

Il dumping. È un’altra forma di concorrenza sleale, consiste nel vendere i prodotti sottocosto allo scopo di eliminare la concorrenza. Una volta rimasti soli sul mercato, poi, si alzano i prezzi.

Il lavoro in nero. Se un’azienda assume lavoratori in nero, dà loro salari di fame, non paga le tasse e i contributi sociali, abbatte notevolmente i costi facendo concorrenza sleale a quelle serie. Non solo, ma di solito queste aziende obbligano gli operai a orari massacranti, anche di 10 -12 ore al giorno, e li fanno lavorare anche nei giorni festivi.

Comportamenti truffaldini. Gli imprenditori che non pagano i fornitori, fanno una montagna di debiti, truffano e falsificano, approfittando anche della lentezza dei processi civili, fanno concorrenza sleale a quelli seri, che pagano le tasse e che rispettano le regole. C’è gente che mette su un’azienda, va avanti per 3 – 4 anni, truffa un sacco di gente, evade le tasse, non paga i dipendenti ecc., poi chiede fallimento, per riaprire un anno dopo da qualche altra parte, con un’altra sigla.

L’evasione fiscale. Le imposte, specialmente in Italia, sono una voce consistente dei costi di produzione, se un’azienda le evade, fa concorrenza sleale e fa chiudere le altre. Inoltre, l’evasione impedisce di ridurre la pressione fiscale.

Merce difettosa. I consumatori o gli utenti, fino agli anni ’50, avevano pochi rimedi se acquistavano un prodotto difettoso, oggi per fortuna le imprese vengono ritenute sempre più spesso responsabili dei loro prodotti. Perciò è da ritenersi concorrenza sleale anche mettere sul mercato prodotti scadenti e a prezzi stracciati. È vero che dovrebbe essere il consumatore a selezionare queste aziende, ma non si deve permettere a questi signori di truffare sempre nuove persone con prodotti che funzionano, in alcuni casi, solo pochi giorni. Alle prime segnalazioni devono essere fermati.

 

4) I BENI PUBBLICI. La gestione pubblica di industrie, di imprese ecc. data le pessime esperienze del passato, è considerata attualmente dagli economisti causa di inefficienza e di sprechi. Oggi non si ritiene che lo Stato possa essere un bravo imprenditore. Citare dei casi di società pubbliche, ottimamente gestite, che hanno saputo reggere i mercati per decenni non basta per ribaltare questa posizione, in quanto ritenute le classiche eccezioni che confermano la regola.

Le uniche deroghe prese in considerazione sono le società di servizio come quelle per la fornitura di acqua potabile, di gas nelle città o le autostrade, in quanto ritenuti monopoli naturali. Per il resto, oggi quasi più nessun economista sostiene che lo Stato debba gestire direttamente attività industriali o commerciali o comunque che l’intervento pubblico possa avere un ruolo predominante sul mercato.

 

L’INEFFICIENZA DISTRIBUTIVA

     Il cammino più lineare, dal produttore al consumatore, secondo gli economisti è anche quello più economico. Purtroppo l’esperienza ci insegna che non sempre è così, spesso in alcuni paesi il libero mercato produce delle gravi distorsioni nella distribuzione. Ad esempio, in Italia, negli anni ’90 le merci dal produttore al consumatore passavano attraverso troppe mani facendo così lievitare sensibilmente i prezzi e così il vantaggio del singolo, non si traduceva nel vantaggio del sistema.

Nel caso più semplice, la filiera normale dovrebbe essere: produttore (che spesso usa prodotti semilavorati e quindi precedentemente c’è stato già un altro passaggio), grossista e, infine, commerciante, e da quest’ultimo al consumatore. Ma ciò non succede sempre, lungo la linea di distribuzione si possono creare degli allungamenti di percorso. Compito di chi è al governo cercare di limitare il più possibile il numero di passaggi o di migliorare l’efficienza della filiera. Non dimentichiamo che la maggiore produttività degli Stati Uniti è dovuta in gran parte a una migliore efficienza della rete distributiva.

 

Vediamo i casi più comuni di disfunzione delle rete di distribuzione:

A – Troppi passaggi. L’abbiamo già accennato, spesso la merce prima di arrivare al consumatore passa attraverso troppe mani, soprattutto commercianti intermedi, e dato che ognuno di essi ci deve guadagnare qualcosa, il risultato è un lievitare innaturale dei prezzi. È uno dei problemi più gravi in Italia, anche se bisogna dire, che in questi ultimi tempi, con l’affermazione della grande distribuzione, questo fenomeno si è ridimensionato notevolmente, anche se non in tutti i settori.

B – Sopravvento dei distributori. È il caso più comune, commercianti, grossisti ecc., con accordi, a volte taciti, dominano il mercato e in pratica determinano il prezzo delle merci. Il fenomeno è molto evidente nel settore agricolo dove non di rado i grossisti ritirano le verdure sui campi a 60 centesimi al Kg e poi la rivendono a 2 € al commerciante.

C – Sopravvento dei produttori. Quando ci sono poche aziende che producono un certo prodotto e queste ultime sono insufficienti a soddisfare le richieste del mercato, il risultato è che i produttori dominano il mercato, imponendo i loro prezzi e le loro condizioni. Il caso più noto è quello dei paesi produttori di petrolio, ormai arrivato a più di 30 – 40  volte il costo di produzione.

D – Sopravvento dei consumatori. È un evento abbastanza raro in tempi normali, lo citiamo soltanto per dare completezza al nostro studio. In caso di sopravvento dei consumatori questi ultimi riescono a influenzare in modo significativo il mercato. In questi ultimi anni le associazioni di consumatori hanno assunto sempre maggiore potere, soprattutto nel denunciare i soprusi dei produttori. È un fatto positivo, ma bisogna stare attenti che, col tempo non si trasformino in gruppi di pressione capaci di influenzare negativamente il mercato.

Una condizione in cui può succedere che i consumatori prendano il sopravvento è quando c’è deflazione o un periodo di forte recessione. Se sul mercato c’è un eccesso di prodotti, e allora i produttori per sopravvivere, abbassano i prezzi fino al punto da azzerare i loro guadagni. Agli industriali, così, non restano margini di profitto sufficienti per investire nell’innovazione. Inoltre, di solito cercano di ridurre le perdite scaricandole sugli operai, cioè abbassando i salari o dilatando gli orari di lavoro.

L’EQUITÀ SOCIALE

     Il mercato può essere meraviglioso ed efficiente, ma produrre al tempo stesso una distribuzione assai diseguale del reddito. Gli economisti radicali odierni, in accordo con le forze della vecchia sinistra, sono concordi nel denunciare le grandi disuguaglianze generate dal capitalismo.

Gli strumenti più usati al fine di ottenere una maggiore equità sociale oggi sono:

L’imposizione fiscale. Crediamo che il principio della capacità contributiva, cioè che ognuno debba pagare le imposte a seconda del proprio reddito o del patrimonio sia ormai universalmente diffuso. Oggi in tutti paesi del mondo si applicano imposte progressive sul reddito. Il che significa che una famiglia con un reddito di € 30.000 non solo paga più imposte di una con un reddito di € 20.000, ma paga una più alta percentuale del suo reddito. Il parole povere, i ricchi pagano molte più tasse dei poveri, anzi quest’ultimi, al di sotto di una certa soglia di reddito, ne sono esentati del tutto. È il principale strumento usato dagli stati moderni per correggere le disuguaglianze derivate dai mercati.

 

     I programmi di sostegno dei redditi. Sono molti i paesi che prevedono aiuti economici alle persone rimaste senza lavoro. I più comuni programmi di sostegno sono: sussidi di disoccupazione, cassa integrazione (questa in Italia), l’imposta negativa sul reddito (che, in fin dei conti, è un’integrazione dei salari più bassi per spingere il lavoratore ad accettare un lavoro, anziché vivere di sussidi). Ne parleremo nel capitolo “ministero del lavoro”.

 

I salari minimi. Quando l’economia ristagna e c’è molta disoccupazione i salari possono scendere al di sotto dei livelli di sussistenza, condannando alla fame milioni di persone. Per questo motivo, uno degli obiettivi della politica economica del governo deve essere proprio quello di una più equa distribuzione delle ricchezze. È giusto che un operaio guadagni meno di un ingegnere, ma non è che il suo salario sia solo 1/200 esimo di quello di un manager. Nella maggior parte dei paesi più avanzati, compreso gli USA, si sono introdotti dei salari minimi per evitare che i datori di lavoro, approfittando della loro posizione di forza, imponessero delle retribuzioni troppo basse, spesso insufficienti persino per la sopravvivenza. Questa misura, però, è fortemente criticata dai neoliberisti in quanto, a loro parere, ostacola la ripresa economica. Non condividiamo questa posizione, ma di questo parleremo a proposito dello stato sociale.

 

Lo Stato sociale. Il Welfare State è il sistema sociale con cui lo stato cerca di garantire un soddisfacente livello di vita ai suoi cittadini, persegue la riduzione delle ineguaglianze e mira ad aiutare le persone più deboli o in difficoltà. Viene attuato attraverso l’assistenza e la previdenza sociale e la possibilità di accedere gratuitamente a servizi quali l’istruzione, l’assistenza sanitaria e sociale. Ci sono poi gli interventi nel campo abitativo e gli assegni di invalidità alle persone disabili. Ne parleremo in un capitolo a parte.

 

     Le opportunità economiche. Nelle più moderne democrazie tutti devono avere uguale accesso alle migliori scuole, alle specializzazioni e ai lavori anche più qualificati senza alcuna distinzione di razza, di sesso o di ceto sociale. Ad esempio, per i figli delle persone meno abbienti che frequentano l’università devono essere previste borse di studio; le cariche e i posti di lavoro nella pubblica amministrazione devono essere assegnati mediante concorsi e così via.

                                                                                                        

Gli ultimi due obiettivi: il problema della crescita economica, data la vastità dell’argomento, è trattato nel paragrafo seguente. L’obiettivo della stabilità macroeconomica, invece, è perseguito attraverso la politica monetaria e fiscale di cui parleremo nei prossimi capitoli.

LA CRESCITA ECONOMICA

     Il capitalismo è stato afflitto, fin dalle sue origini, da periodi di depressione, caratterizzati da un’elevata disoccupazione, forti disuguaglianze sociali, fasce della popolazione in povertà, aziende in difficoltà, calo dei profitti ecc.. Per questo motivo è opportuno affrontare l’argomento in modo scientifico in quanto molti politici, in particolare quelli italiani, sono convinti che per il rilancio del sistema produttivo basti distribuire un po’ di finanziamenti a fondo perduto alle aziende, concedere prestiti a tassi bassi o offrire agevolazioni fiscali o altre misure di sostegno analoghe. A queste, poi, associano l’ormai “vecchia” politica della stimolazione della domanda interna (secondo gli insegnamenti di Keynes). Stato ed enti locali in molti paesi come il nostro, infatti, allo scopo, fanno a gara ad appaltare sempre nuove opere pubbliche.

Non si tratta, ben inteso, di politiche sbagliate, ma solo che le cose nella realtà non sono così semplici. I fattori in gioco, infatti, per favorire la crescita economica di un paese, sono molto più numerosi di quelli presi in considerazione. Non a caso in Italia queste politiche applicate dal dopoguerra fino al 2008, quando la crisi del debito pubblico ha costretto a chiudere i rubinetti dei finanziamenti pubblici, hanno dato buoni risultati solo fino agli anni ’70, poi è cominciata una lunga era di declino. Far ripartire un paese, infatti, e creare nuovi posti di lavoro “veri” (cioè non nei servizi, pagati dalla comunità) è un’operazione di macroeconomia che richiede un approccio articolato, condotto intervenendo su molti fattori, ma soprattutto agendo in modo da eliminare le cause che scoraggiano gli imprenditori ad investire.

 

    Le due economie.

Prima di entrare nell’argomento, però, è meglio fare una distinzione. Per sviluppo e miglioramento dell’economia non deve intendersi soltanto aumento del PIL, ma anche miglioramento delle condizioni socio economiche di tutti i cittadini. La crescita, infatti, può procedere in modo assai disuguale: bene per i “padroni” (termine usato solo per farci capire meglio) e male per i lavoratori. Può capitare benissimo che il paese segni un aumento del PIL superiore al 5 %, ma gli operai percepiscono sempre lo stesso misero salario. Ad es., in Brasile, negli anni 2002- 2008, anche se si registravano ritmi di crescita intorno al 5%, per i dipendenti non cambiava quasi niente, perché le loro retribuzioni erano appena sufficienti a soddisfare le esigenze fondamentali.

In effetti, esistono due tipi di economie: quella ufficiale, che è “l’economia dei padroni” e l’economia dei lavoratori. La seconda è data dal potere di acquisto di salari o di stipendi, ossia di tutti coloro che vivono di lavoro dipendente. È importante operare questa distinzione, perché non sempre le due economie crescono insieme, cioè all’aumento dell’una, corrisponde un aumento della seconda. Secondo gli economisti classici ciò non succede, perché maggiore sviluppo, comporta necessariamente retribuzioni più alte, aumentando la richiesta di lavoro.

Ciò non è sempre vero. Può capitare, infatti, che la ripresa economica recepisca soltanto una parte della mano d’opera rimasta inoccupata nei precedenti anni o che l’immigrazione non faccia diminuire affatto la domanda di lavoro, non trascinando così i salari verso l’alto. Non solo, ma può capitare benissimo che a un alto tasso di crescita economica corrisponda, addirittura, un peggioramento delle condizioni economiche dei lavoratori, ad esempio perché aumenta l’inflazione. Tassi di sviluppo economico elevati, infatti, sono quasi sempre accompagnati da processi di inflazione abbastanza “vivaci”.

Le cose, però,  per fortuna non sempre vanno così. Di solito quando l’economia va bene, va bene per tutti, in quanto se gli imprenditori tornano al profitto sono disponibili anche a concedere aumenti salariali. Inoltre, in un periodo di sviluppo economico, quasi sempre migliorano anche le condizioni economiche delle famiglie, non fosse altro perché più persone della stessa famiglia trovano lavoro.

In ultimo, l’aumento delle retribuzioni, incrementa la domanda interna di beni e, quindi produce un effetto benefico sull’economia, accelerando lo sviluppo economico.

 

CREARE NUOVI POSTI di LAVORO

    “Un dato di fatto è ineluttabile, non esiste in ultima analisi nessuna cura rapida o miracolosa nella guerra alla disoccupazione” A. Friedman. Questa affermazione, di uno dei più noti economisti del mondo, riassume una verità innegabile: oggi, benché molti politici in campagna elettorale vadano sbandierando in giro di poter creare centinaia di migliaia di posti di lavoro, non è facile farlo. Promuovere lo sviluppo in un mondo globalizzato, far nascere nuove opportunità di lavoro vero, non è cosa semplice e richiede un notevole investimento di risorse economiche e di energie.

Ecco le misure che gli economisti consigliano per promuovere lo sviluppo economico e creare nuovi posti di lavoro:

 

Agire sulla leva monetaria. È la misura più semplice. Abbassando i tassi di interesse, si rende il denaro più a buon mercato e ciò facilita il ricorso da parte degli imprenditori ai finanziamenti. Non andiamo oltre perché è noto a tutti, l’unica cosa da aggiungere è che non bisogna illudersi sugli effetti di questa manovra. Abbassare il tasso di interesse di uno o due punti aiuta il sistema economico, ma non è certamente in grado di risollevare un’economia in forte crisi. In effetti, garantire l’accesso al credito e far pagare alle aziende degli interessi passivi molto bassi, ha effetto di accelerare la ripresa economica, ma spesso non basta. Ne è prova il fatto che nonostante il tasso ufficiale di sconto in Europa sia stato per anni il 1% (dopo il 2008),  non c’è stato alcun boom economico.

 

Ridurre la pressione fiscale. Si racconta che l’economista Arturo Laffer schizzò la sua curva su un tovagliolino a Reagan in una birreria, illustrando la sua teoria e conquistandolo alla politica dei tagli fiscali, che divenne poi uno dei punti caratteristici della reaganomics.

La curva si basa su tre ipotesi: la prima è che il fisco non incassa niente, se le tasse sono a 0%. Il che è ovvio. La seconda che il fisco non incassa niente nemmeno se sono al 100%, perché in questo caso sarebbe sciocco farsi pagare in denaro al solo scopo di girare l’intero guadagno allo stato (si tornerebbe al baratto). La terza ipotesi è che la dipendenza delle entrate fiscali dalle aliquote sia continua. Si tratta chiaramente di un accettabile semplificazione matematica.

Per un noto teorema di analisi elementare esiste un’aliquota massima cioè che produce la massima entrata fiscale. Se le tasse superano questa aliquota, aumentarle non produce un incremento del gettito fiscale, ma lo fa diminuire. Secondo questa teoria, in effetti, al salire delle aliquote sopra lo zero il gettito totale aumenta, ma, poi, a un certo punto la gente incomincia a lavorare e a risparmiare di meno e a dirottare le sue attività economiche verso l’economia sommersa, anche se nessuno conosce la forma esatta della curva, né qual è l’aliquota che produce la massima entrata fiscale.

Secondo Laffer una riduzione delle aliquote d’imposta avrebbe aumentato il gettito fiscale. Si sbagliò in quanto il punto della curva in cui si trovavano gli Stati Uniti non era quello giusto ed una riduzione delle imposte produsse una riduzione del gettito, non un aumento, “ma il principio generale è valido, quando le aliquote d’imposta sono sufficientemente elevate, un’ulteriore aumento può di fatto ridurre il gettito fiscale” Banchard, 2009.

Anche altri economisti, come Fullerton, hanno criticato questa teoria, tuttavia è innegabile che un taglio significativo delle tasse promuove lo sviluppo e crea nuovi posti di lavoro. Questo sia perché gli imprenditori sono più disponibili a investire e a creare nuove imprese, sia perché una tassazione meno vorace rende più competitivi i prodotti nazionali sul mercato internazionale. I paesi che hanno seguito questa strada con successo nel mondo sono stati parecchi, tra cui la Finlandia e la Spagna. Quest’ultima dopo la cura di Aznar, prima del 2000, è cresciuta a un ritmo del 3,6%, il doppio di quella europea.

Non andiamo oltre, perché lo spazio a nostra disposizione è ridotto, ci limitiamo solo a far presente che per ridurre le tasse bisogna tagliare le spese. Innanzitutto meno sprechi, più efficienza e un uso oculato dei soldi pubblici. In secondo luogo occorre ridurre il welfare per riportare i conti in attivo. E ciò che fece la Finlandia nel 1995. Ridusse la spesa sanitaria e tagliò i sussidi di disoccupazione, in questo modo la spesa sociale scese del 30%. Così l’economia ripartì.

Ai fini dello sviluppo, chiaramente, sono importanti i tagli sulle tasse che riguardano le imprese. Ad esempio, bisogna sopprimere l’IMU sui capannoni industriali e sugli impianti, come centraline telefoniche e centrali elettriche, ma è anche opportuno ridurre i contributi sociali e le imposte che pesano sulla busta paga, in modo da abbassare il costo del lavoro. È dello stesso parere A. Friedman: “Si dovranno ridurre le tasse sull’impiego per incentivare le assunzioni” (da un’intervista rilasciata a Panorama). L’imprenditore napoletano Mario Marone, in intervista al “Sole 24 ore” (21/12/05), ha dichiarato: “Lo verifico ogni mese dalle buste paga dei miei occupati, il costo del lavoro è eccessivo e gli oneri fiscali insostenibili”.

 

Aumentare la spesa pubblica. È la principale strategia usata nel nostro paese dal dopoguerra ad oggi per far partire l’economia. In effetti, mettendo in cantiere il maggior numero di opere pubbliche possibili, spesso Stato ed enti locali fanno a gara a tale scopo, si crea occupazione e si alimenta la domanda interna. È il cosiddetto modello del moltiplicatore.

In parole semplici funziona così: se io costruisco una autostrada, do lavoro a 1.000 operai che aumenteranno la loro richiesta di beni, ad esempio compreranno più automobili e più vestiti, i produttori di automobili, a loro volta, compreranno più gomme e più ferro, che a loro volta compreranno altri beni. Si crea, cioè, un meccanismo a catena, benefico per tutta l’economia in quanto ha l’effetto di stimolare la crescita economica. Secondo questo modello, quindi, gli automatismi del mercato sono in grado di superare da soli la depressione, purché lo Stato dia avvio al processo con una politica di incentivi ai consumi. Quanto alla copertura necessaria per gli investimenti, di cui lo Stato dovrebbe farsi carico, Keynes riteneva che i conti pubblici sarebbero tornati in sesto grazie alle maggiori entrate conseguibili con la ripresa economica. Si tratta di una strategia valida, però, non priva di difetti, che esaminiamo velocemente.

Per primo, come fu evidenziato dallo stesso economista inglese: un numero maggiore di lavori pubblici,  significa un aumento della spesa, e perciò delle tasse e che si può tradurre in maggiore inflazione. Superati certi limiti, cioè quando l’imposizione fiscale diventa troppo alta, invece di stimolare l’economia, la deprime. In effetti, più opere pubbliche, significa più finanziamenti, più tasse e, quindi, maggiori oneri sia per le imprese che per i cittadini. Lo stesso keynes metteva sull’avviso che si poteva generare una spirale inflazionistica.

Per secondo, i posti di lavoro sono finanziati con soldi pubblici, quindi sono artificiali, non creati dal mercato. Non solo, ma sono posti di lavoro provvisori, destinati a scomparire appena l’opera pubblica in questione viene completata.

Senza contare, poi, che spesso gli amministratori non usano in modo ottimale il denaro pubblico. In altre parole, finché lo Stato o gli enti locali spendono i loro soldi per creare infrastrutture necessarie per il rilancio industriale, per promuovere lo sviluppo e l’occupazione, i benefici sono evidenti, ma se gli enti locali si mettono a costruire “cattedrali nel deserto”, ci sarà solo uno spreco di risorse. Non c’è bisogno di essere pessimisti per rendersi conto che spesso i politici usano in modo clientelare i loro soldi. In conclusione, per avere effetti benefici sull’economia non basta “spendere” soldi in opere pubbliche, bisogna anche investirli bene.

Per terzo, purtroppo molti non si sono accorti che la “globalizzazione” ha cambiato le carte in tavola e ha reso molto meno efficace la teoria del moltiplicatore. Con un esempio saremo più chiari. Se per costruire un’autostrada dei 1.000 operai che servono, l’impresa ne prende 500 extra comunitari, che a fine mese inviano gran parte dei loro risparmi nel loro paese di origine, una buona parte dell’effetto benefico della ricetta keynes se ne va all’estero. Se a questo si aggiunge che le ditte comprano cemento in Francia, il ferro in un paese sottosviluppato perché meno costoso, se poi si usano scavatori giapponesi, computer americani, attrezzature tedesche ecc., ebbene si stimolerà la ripresa economica in questi paesi, non in Italia, dove resteranno solo le briciole.

È vero che questo effetto a catena, di solito si propaga anche oltre confine, ma solo in minima parte si traducono in maggiori esportazioni. P. Samuelson scrive: “Poiché in un’economia aperta una certa frazione di qualsiasi aumento del reddito si disperde verso le importazioni, il moltiplicatore di economia aperta è minore di quello di un sistema economico chiuso. La relazione esatta è:  moltiplicatore = 1/ PMR + PMm. Dove PMR è la propensione marginale al risparmio e PMm è la propensione marginale all’importazione.” In effetti più aumentano le importazioni e più si riduce il moltiplicatore di una economia.

In verità, la teoria di Keynes è diventata molto popolare in Italia per un semplice motivo: perché si presta bene alle pratiche clientelari. Più lavori pubblici si mettono in cantiere, più è grande il giro di affari che si riesce a creare, più ci saranno “soldi” per coloro che appartengono alla giungla politica. Ai nostri politici è bastato uno sguardo per innamorarsi di questa teoria economica, in quanto si prestava bene ai loro scopi.

In conclusione è una strategia efficace sul breve periodo, sempre che non si tratti di una crisi strutturale. Inoltre bisogna stare bene attenti a non esagerare, cioè a non mettere in cantiere troppi lavori pubblici perché si potrebbe finire per aumentare il debito pubblico ed essere costretti ad aumentare le tasse.

 

Aumentare la produttività. “La produttività è cresciuta lentamente in tutta l’Europa, ma l’Italia è arretrata rispetto agli altri paesi dell’Ue – ha dichiarato a un giornalista del giornale “la Repubblica” del 27/12/2006, il premio Nobel dell’economia R. M. Solow – principalmente perché le principali industrie non sono concorrenziali.”

Le misure per aumentare la produttività sono note: miglioramento dell’organizzazione aziendale, aumento dell’orario settimanale e norme che scoraggiano l’assenteismo e la disaffezione al lavoro, ma soprattutto gli scioperi, un evento molto dannoso per l’economia. Dei passi possono essere fatti anche aumentando i giorni lavorativi, se in un paese ci sono troppe feste come in Italia (a Natale per circa 20 gg è un susseguirsi di ricorrenze), bisogna ridurle. Inoltre “bisogna evitare politiche retributive che premiano troppo l’anzianità e scoraggiano il merito” (il sole 24 ore, 28-2-12). In pratica i salari non devono crescere solo sulla base dell’anzianità, ma soprattutto con l’aumento della produttività.

Altre misure per aumentare la produttività sono: selezionare bene le maestranze, in modo che ognuno faccia il lavoro più adatto alle sue capacità, sensibilizzare i lavoratori a un maggior impegno, introdurre il principio della partecipazione agli utili o prendere come modello il metodo di remunerazione a premi adottato in Giappone. Secondo Martin Weitzman, dell’università di Harvard, se i lavoratori ricevono come retribuzione una quota dei ricavi o degli utili, anziché un semplice salario orario, il costo marginale del lavoro diminuirà rispetto, al sistema del semplice salario. Inoltre le imprese decideranno di trattenere i lavoratori durante le recessioni e il tasso di disoccupazione globale diminuirà.

 

Aumentare i redditi. Esiste un altro metodo per stimolare la domanda interna: aumentare stipendi e salari. Questa strategia, purtroppo, è di difficile attuazione in quanto richiede risorse economiche che quasi sempre lo stato, se è in crisi, non ha. Identico discorso per i privati, non sempre le imprese sono in grado di sopportare un aumento dei costi di produzione rendendo così più care, e meno competitive, le proprie merci sui mercati internazionali. Inoltre, aumentare i redditi non crea occupazione a breve termine e si tratta di una strategia in parte vanificata dalla globalizzazione. Se i dipendenti con gli aumenti comprano prodotti cinesi o televisori giapponesi o auto tedesche, non ci saranno grandi progressi per l’economia nazionale. Inoltre, questa politica può produrre inflazione perché aumenta contemporaneamente la quantità di moneta in circolazione e la domanda dei beni.

 

Creare le infrastrutture. Stando ai dati del centro studi di Confindustria, l’Italia risulta meno dotata di strade e ferrovie in rapporto alla media comunitaria. Ma non bastano l’alta velocità o un sistema di trasporto più evoluto, nell’era di Internet anche la trasmissione di informazioni è diventato un fattore vitale.

La presenza di infrastrutture è certamente un fattore fondamentale, infatti, è un punto su cui i nostri politici battono molto, ma non sempre basta. È vero, in alcuni casi la carenza di infrastrutture blocca l’insediamento di nuove aziende, ma spesso, come diremo più avanti, per esserci sviluppo c’è bisogno che ci siano le condizioni giuste. In effetti la crescita economica è subordinata alla presenza di un insieme di fattori, non dipende da una sola cosa.

Inoltre, bisogna stare attenti, anche qui la globalizzazione ha cambiato le carte in tavola. La costruzione di un nuovo porto, ad esempio, invece di creare sviluppo, può avere un effetto negativo sull’economia locale. Se diventa più facile e più economico importare prodotti dalla Cina, l’occupazione, invece di aumentare, può diminuire. Le infrastrutture sono delle autostrade a doppio senso: non servono cioè solo per sviluppare ed esportare, ma anche per far viaggiare più veloci le merci importate.

    Svalutare la moneta. È ormai noto a tutti, avere una moneta forte è un vantaggio quando si comprano petrolio e materie prime, ma è un grande handicap se si vuole esportare, per questo motivo alcuni governi ricorrono a questa misura per rilanciare le esportazioni (in gergo si chiama svalutazione competitiva). Si tratta di un comportamento, però, ritenuto scorretto, una forma di concorrenza sleale, ma c’è chi fa di peggio, come la Cina che mantiene basso artificialmente il cambio della propria valuta. Chiaramente un governo che fosse orientato a perseguire questo tipo di politica, non deve farlo apertamente, ma ricorrere a intermediari che comprino in modo discreto valuta pregiata. Di solito, però, non è necessario ricorrere a questi espedienti, in quanto chi ha un’economia debole si trova, col tempo, anche ad avere una moneta debole. Basta lasciar fare al mercato.

 

Attirare le industrie straniere. Un’altra ottima strategia per creare nuovi posti di occupazione è quella di invitare imprese straniere o multinazionali a produrre nel nostro paese, offrendo terreni gratis, agevolazioni fiscali ecc.. I nostri diretti concorrenti come Francia, Gran Bretagna, Austria ecc, ricorrono addirittura a cacciatori di aziende, che studiano tutte le possibilità di nuovi insediamenti industriali e poi li vanno a proporre a gruppi economici stranieri.

Anche qui valgono le stesse avvertenze fatte a proposito degli incentivi pubblici agli imprenditori, nei paragrafi precedenti. Bisogna stare attenti a non essere troppo generosi (in quanto questi imprenditori potrebbero approfittare degli incentivi economici e mollare tutto quando lo Stato non li finanzia più). È necessario tener presente che in giro ci sono tanti imprenditori disonesti, pronti a cogliere ogni occasione per arricchirsi col denaro pubblico.

Per questo motivo quando si concedono finanziamenti ci devono essere improvvisi e continui controlli. Gli ispettori devono essere nominati all’ultimo momento, in modo che non ci sia il tempo per corromperli. Come pure, devono essere cambiati ogni certo numero di anni per impedire che si creino “certe amicizie” o reti clientelari. Inoltre, in caso l’industria fallisce tutti i macchinari e gli immobili devono essere sequestrati e diventare proprietà dello Stato.

Al contrario, bisogna mostrare la massima disponibilità se si tratta di creare delle infrastrutture necessarie alla nuova azienda, infrastrutture che, però, devono servire a tutti.

La strategia di invogliare le multinazionali a investire nel proprio paese è una strada quasi obbligata se si tratta di attirare industrie ad alta tecnologia. Da questo punto di vista la Spagna rappresenta un caso esemplare. Oggi è tra i maggiori produttori mondiali di automobili, indipendentemente dai numeri del mercato interno. Qui operano quasi tutti i protagonisti dell’industria automobilistica, con una varietà di presenze che non ha paragoni nel resto del mondo. Prevale la convinzione politica che l’automobile è un business importante del paese, da qualsiasi parte venga. Accanto a una marca, considerata nazionale, come la Seat, sia pure ora appartenga al gruppo tedesco della Volkswagen, troviamo industrie straniere fin da epoche remote: la Ford, la General Motor e la Fiat Hispania.

Gli spagnoli si sono abituati a vedere industrie straniere sul loro territorio e sicuramente hanno imparato qualcosa dai sistematici fallimenti di far nascere un’industria automobilista autenticamente ed esclusivamente nazionale. Basta citare i casi SIAT alla fine degli anni 30 o la Eucort negli anni Quaranta, entrambi senza successo.

Riformare il sistema creditizio. Sono molte le cose che non vanno nel sistema creditizio italiano a partire dalla “forbice” che è troppo ampia, ad es. negli anni 2003 – 2008 le banche prestavano soldi alle imprese con interessi che andavano dal 8,5%, fino all’11,2%, mentre a chi depositava somme, anche considerevoli, danno interessi bassissimi, anche meno del 1%.

Ma la cosa più sbagliata è la norma che dà alle banche la possibilità di chiedere il rientro immediato del prestito concesso, anche se l’imprenditore paga regolarmente le rate e non ha alcun procedimento giudiziario in corso. In effetti, basta che un funzionario abbia un cattivo presentimento, che si manda un’intimidazione di rientro entro un brevissimo lasso di tempo, anche meno di 1 mese. Molti imprenditori sono finiti sul lastrico in questo modo e molte imprese non aprono per questo motivo.

Le misure da adottare, se si vuole veramente aiutare le impresa, sono: le banche possono chiedere il rientro immediato solo per giustificati motivi o se l’imprenditore è moroso con i pagamenti. 2) L’istituto bancario non può cedere a terzi il suo credito, né ci può essere un aggravio di spese. 3) I finanziamenti devono essere rapidi. L’istituto di credito non può prendere le cose con comodo e concedere il prestito dopo due anni, perché l’impresa potrebbe essere già chiusa. Anche in caso di risposta negativa questa deve avvenire nel giro di poco tempo.

 

    Le eredità “bloccate”. Nel nostro paese esistono alcune situazioni in un certo senso anomale. Quando gli eredi non si mettono d’accordo sulla spartizione di un patrimonio immobiliare o industriale, spesso restano bloccati per moltissimi anni senza poter far nulla. Lo stesso capita a chi si ritrova in società con soci, da cui a un certo punto decide di separarsi. La legge dovrebbe cambiare completamente: se non si riesce a trovare un accordo entro un anno, uno dei soci o degli eredi deve poter chiedere lo scioglimento forzato della società. Nei casi in cui non si riesce ad arrivare nessun accomodamento, si mettono all’asta tutti beni e, poi, si dividono i soldi. In questo modo si sbloccherebbero tantissime situazioni e ciò aiuterebbe l’economia a camminare. Ad es., capannoni industriali dismessi potrebbero essere comprati da persone intenzionate a promuovere altre attività, terreni potrebbero essere edificati e così via.

Ridurre la burocrazia. “L’Italia ha una burocrazia elefantiaca e inefficiente, procedure medievali, tempi mediorientali, infrastrutture da quarto mondo, costi stratosferici. In Galles ci sono importanti incentivi all’investimento e in generale le procedure sono snelle, i vincoli inesistenti, la pubblica amministrazione è rapida” (da “Il giornale” del 29/12/1996). In conclusione tutti gli sforzi per promuovere lo sviluppo e creare nuovi posti di lavoro rischiano di tradursi in un buco nell’acqua se prima non si procede verso una deburocratizzazione della pubblica amministrazione. Per costituire un’azienda in Italia sono necessari nove step burocratici, in Francia sette, in Inghilterra sei e negli Stati Uniti cinque. Ogni volta che si deve fare una riorganizzazione aziendale anche modesta, si pongono problemi giuridici e societari che richiedono tempo, energie e alti costi di consulenza.

Inoltre non c’è certezza sulle norme che riguardano i contratti di lavoro, la tutela ambientale, la sicurezza e gli aspetti fiscali. Ci sono troppo norme farraginose, complesse e contraddittorie e spesso un imprenditore non riesce a capire se sta agendo entro i confini della legge o non. In più non abbiamo una pubblica amministrazione che riesce a orientarlo con certezza nella giungla delle leggi e a fornirgli valide soluzioni.

“Troppe regole, troppe tasse, troppi lacci e laccioli” – hanno dichiarato al giornale la Repubblica 27/11/ 2006 tre premi Nobel dell’economia: Heckman, Solow e Mundel – “La strada per recuperare competitività e affrontare al meglio le sfide della globalizzazione è un sola: deregulation, liberalizzazione, riforme ed efficienza in tutti campi, dal mercato del lavoro alle università.”

 

Riportiamo, per motivi di spazio, solo due delle proposte migliori per uscire dalle pastoie di una burocrazia estremamente penalizzante.

Il silenzio assenso. Nel caso di richieste di autorizzazioni, come licenze commerciali, attività produttive, se dopo tre mesi non c’è risposta, il cittadino può considerare approvata la propria domanda. Chiaramente si tratta di una soluzione di emergenza, in quanto in questo modo si bypassa soltanto il problema, non lo si risolve. La soluzione giusta è quella di semplificare le procedure e rendere efficiente la pubblica amministrazione in modo che risponda in maniera certa e in tempi rapidi.

Lo sportello unico. Il prof. Mattarella dell’Università di Siena in un’intervista a un noto giornale ha dichiarato che occorre agevolare il rapporto tra imprese e pubblica amministrazione, semplificando i procedimenti amministrativi e realizzando lo sportello unico per le attività produttive. È una buona proposta, che nel nostro paese viene avanzata da anni, però attenzione a non spostare soltanto il problema. Il rischio è che le pratiche si blocchino, poi, tutte allo sportello unico.

 

Combattere le inefficienze del mercato. Ne abbiamo parlato nel capitolo precedente, qui ritorniamo su due di esse perché fondamentali.

    La concorrenza sleale. Una puntata di Report RAI3 il 18/5/2008 ha messo in evidenza che l’arrivo di decine di migliaia di clandestini cinesi, guidati da imprenditori senza scrupoli, hanno messo in ginocchio le industrie calzaturiere italiane. Nei laboratori clandestini collocati nei sottoscala, nei garage o nelle fabbriche dimesse, senza condizioni igieniche adeguate, facevano lavorare i propri connazionali anche 15 ore al giorno, abbattendo così i costi e facendo chiudere molte imprese locali.

I prodotti griffati. È una questione di cui si parla da molto tempo, ma si è ancora lontani dall’aver risolto definitivamente. Ancora oggi vengono importate moltissime merci contraffatte o su cui scrivono “Made in Italy”. Se non si risolve il problema dei controlli alle frontiere e non si introducono sanzioni adeguate, non c’è speranza per le nostre imprese, che lavorano onestamente. Per secondo, bisogna che la normativa diventi più restrittiva, nel senso che si deve permettere di attaccare l’etichetta “Made in Italy”, solo se la maggior parte della lavorazione viene fatta in Italia.

 

    Migliorare la competitività sui mercati internazionali. Oggi è impossibile promuovere lo sviluppo e creare nuovi posti di lavoro senza inquadrare il problema nell’ambito più grande del commercio internazionale. In un’economia aperta e globalizzata è essenziale avere prodotti che possono competere sia per qualità che per prezzo. Ecco cosa scrive il premio Nobel per l’economia Samuelson: “Il ciclo economico internazionale esercita un effetto potente su ogni nazione del mondo. Le azioni di politica monetaria compiute a Washington possono provocare depressione, povertà e rivoluzioni in Sudamerica. Le perturbazioni politiche che si producono nel Medio Oriente possono innescare una spirale dei prezzi petroliferi che causano boom o recessione su scala mondiale. Ignorare il commercio internazionale significa perdere metà di quello che si svolge sulla scena economica”. Poche pagine più avanti ritorna sul concetto “Se le politiche di un paese non sono al passo con quelle dei suoi partner commerciali, la situazione può precipitare, provocando recessioni, inflazione o gravi squilibri commerciali.”

Ci limitiamo ad indicare i fattori più importati per essere competitivi: a) Specializzazione in alcuni prodotti, meglio se altamente tecnologici. b) Bassi costi di produzione, il che significa ridotta pressione fiscale, costo del lavoro basso (e alta produttività), costi dell’energia bassi, poca burocrazia ecc. c) Un tasso di cambio favorevole. È innegabile che i paesi che hanno una moneta debole riescono ad esportare più facilmente e sono favoriti nel turismo ecc.. Il tasso di cambio della valuta è un fattore determinante nel commercio internazionale, ma è un concetto che molti politici non riescono a capire.

 

    Ridurre i costi dei servizi. Un altro modo per aumentare la competitività è quello di ridurre le principali costi di produzione, soprattutto il costo dell’energia elettrica che nel nostro paese è più alto in Europa. Ad esempio, la Francia grazie alle centrali nucleari riesce a fornire energia elettrica a un prezzo molto più basso e perciò abbassa i costi di produzione. Sono importanti anche i costi dei carburanti e dei servizi, che incidono notevolmente sui costi.

 

Promuovere criteri meritocratici. Uno dei segreti dell’efficienza di un sistema economico è la meritocrazia. Se in un paese le cariche ai vertici, sono affidate con sistemi clientelari, può capitare che persone non idonee siano chiamate alla guida di importanti istituzioni. Questo in ogni settore sia pubblico che privato. Ci sono paesi, come l’Italia, in cui il sistema clientelare, a poco la volta si è esteso anche al settore privato. Questo perché, a volte, si subordina la concessione di una licenza, di un permesso o di finanziamenti pubblici, all’assunzione di personale segnalato dai politici.

Il risultato è che spesso ai vertici di importanti enti o società pubbliche troviamo persone poco adatte a ruoli manageriali. È uno dei motivi principali del declino italiano. Non tutti sanno che uno dei segreti del successo di Gengis kahn fu l’assegnazione degli incarichi nel suo esercito, non in base all’appartenenza alle famiglie, come era in precedenza, ma alle capacità dei soldati. Più di recente l’Inghilterra è stata per secoli uno paesi europei più avanzati principalmente perché ha adottato per prima criteri meritocratici. Uno dei motivi più importanti per cui negli Stati Uniti emergono tanti scrittori di livello mondiale, perché in questi paesi i literary agent selezionano attentamente le persone più brave da lanciare. Nel nostro paese, invece, i meriti vengono soltanto al secondo o al terzo posto. È più importante essere nel giro giusto, avere appoggi e conoscenze.

 

Gli altri tre punti fondamentali per favorire lo sviluppo economico di un paese sono: finanziamenti alle nuove imprese, aiuti alle aziende in crisi e promuovere la ricerca e l’innovazione. Li vedremo nei prossimi paragrafi.

 

FINANZIAMENTI ALLE NUOVE IMPRESE

    Sono ancora in molti, non solo nel nostro paese, come abbiamo accennato, a credere che basta distribuire un po’ di sovvenzioni alle imprese, concedere agevolazioni fiscali, dare contributi per la ricerca ecc., per far partire l’economia e creare nuovi posti di lavoro. Sono le strategie che in Italia si sono usate per decenni senza grandi risultati. È senz’altro utile e proficuo concedere finanziamenti agli imprenditori che vogliono avviare un’attività, però non bisogna farsi eccessive illusioni sui risultati, a volte non si fa altro che alimentare la corruzione e il clientelismo. Molto, chiaramente, dipende dalle condizioni che si impongono a chi vuole accedere al denaro pubblico e da “come si fanno le cose”. Ma andiamo con ordine, concedere finanziamenti ai privati è senz’altro importante per favorire lo sviluppo e creare occupazione, ma si tratta di una strategia che presenta molti problemi. Essi sono:

 

Alimentano la corruzione. Più che creare occupazione, i finanziamenti a fondo perduto nel passato in molti paesi come l’Italia, sono stati sola una grande occasione per imprenditori e politici per arricchirsi ai danni della comunità. Tutta la storia dell’industrializzazione del sud fino agli anni ‘90 è costellata di casi del genere. Industriali del Nord che hanno preso i soldi dal governo per mettere una fabbrica al sud, ma hanno trasferito qui soltanto macchinari obsoleti e dato vita alla “parodia” di un’industria. Il risultato è stato che, nel migliore dei casi, hanno aperto solo per pochi anni, per poi chiudere definitivamente.

Citiamo uno degli ultimi scandali di cui abbiamo notizia (agosto 2006). Un deputato calabrese è stato arrestato per aver aiutato imprenditori disonesti a creare un’industria fantasma, che aveva intascato ben 6 milioni di euro dalla Comunità Europea, senza aver mai prodotto niente.

Nel passato gli incentivi dello Stato sono stati spesso usati per comprare tecnologia obsoleta, superata; industrie nate morte con nessuna prospettiva per il futuro. Un esempio per tutti, più di 15 anni fa, lo Stato sborsò svariati miliardi delle vecchie lire per far sorgere un’industria che doveva sfruttare la tecnologia Dect, quella cioè che rendeva il telefono di casa portatile fino a un raggio di 3 km. Questa tecnologia, nata in periodo in cui i cellulari erano molto costosi, diventò superata prima che si potesse commercializzare i primi telefoni. Il costo dei cellulari, infatti, diminuì molto e si potevano portare dappertutto, perciò nessuno si mostrò più interessato al telefono portatile. Diversi svariati miliardi di denaro pubblico buttati dalla finestra, materiali, risorse e capannoni industriali abbandonati, costruiti là dove c’era un bel terreno agricolo.

Un esempio di ingenuità imprenditoriale? No, di cattiva fede in quanto era perfettamente prevedibile che i costi dei telefonini sarebbero scesi di molto (è successo per tutte le innovazioni tecnologiche dai televisori ai computer). Se non ci fossero stati i finanziamenti pubblici gli industriali si sarebbero esposti fino a tal punto? Certamente no, perché coscienti del fatto che una diminuzione del prezzo dei cellulari li avrebbe messi fuori mercato. In effetti gli investitori scesero in campo perché c’erano i finanziamenti pubblici, altrimenti se ne sarebbero guardati bene di avviare un’attività simile. Si è calcolato che a Baragiano (Potenza), dove con i soldi della ricostruzione del sisma del 1980 si è attrezzata un’intera area industriale completamente ex novo, ogni posto di lavoro è costato ben € 1.800.000.

Di questa manna piovuta dal cielo, ossia dalle mani di amministratori pubblici per lo meno ingenui, ne hanno approfittato persino gli imprenditori cinesi. All’indomani del terremoto del 1980 misero su un’impresa orafa che, nelle intenzioni, doveva lavorare annualmente 40 t di oro da immettere, poi, sui mercati asiatici. Ebbene, non hanno mai aperto, né avviato alcuna produzione ciò nonostante sono riusciti a ottenere in 20 anni ben 13 milioni di euro di finanziamenti da enti pubblici. All’inizio l’azienda si doveva chiamare Memofil, poi “Centro Orafo”, in terzo momento subentrò un consorzio di 58 imprese cinesi che incassarono sempre tanti soldi pubblici, senza avviare mai i lavori. E la storia continuava fino al momento in cui fu scritto l’articolo (Corriere della Sera 2/4/07). L’industria orafa, a ogni collasso, mostrava di aver più vite di un gatto. Merito dei finanziamenti che incassava, ogni volta con la speranza del rilancio e di dare lavoro a una cinquantina di persone. Speranza sempre rimasta delusa.

Per questo motivo occorre star attenti a non finanziare industrie nate soltanto con lo scopo di sfruttare i finanziamenti pubblici, quindi di imprenditori che non hanno nessuna intenzione di dar vita a un’azienda commercialmente competitiva. Spesso non costruiscono nemmeno il capannone, i soldi dello stato sono bruciati soltanto per depositare decine di brevetti inutili.

Non andiamo oltre, tutta la nostra storia industriale del sud Italia è ricca di episodi di finanziamenti che hanno finito di arricchire soltanto imprenditori senza scrupoli. Per fortuna, però, non è stato sempre così. Abbiamo avuto anche il caso di industriali seri che hanno creato imprese valide commercialmente, ma sono state le classiche eccezioni che confermano la regola. Se si possono azzardare delle cifre diciamo che la proporzione è stata 30 a 1, cioè ogni 30 aziende finanziate, una di essa si è rivelata valida economicamente Il che significa “la montagna che partorisce il topolino”, uno spreco di risorse che nessuno paese si può permettere.

 

    Creano una classe di imprenditori stato dipendenti. La politica degli incentivi ha prodotto una classe di imprenditori stato dipendenti, cioè capaci di reggere il mercato soltanto se sovvenzionati e pronti a battere cassa alla minima difficoltà. In effetti, i nostri imprenditori finché le cose vanno bene sono pronti a incassare “a due mani”, appena c’è un accenno di crisi, incominciano a chiedere soldi, ventilando la minaccia di chiudere. In questo modo si finisce per non avere mai delle industrie che si reggono con le proprie gambe.

 

    Finanziamenti o non. Gli economisti sono divisi, molti sostengono che devono essere i privati a finanziare nuove attività economiche e che lo Stato non deve intervenire in alcun modo. È comodo rischiare il capitale se è pubblico e non il proprio. Inoltre spesso lo scopo degli imprenditori non è far nascere nuove imprese, ma arricchirsi con i contributi pubblici.

Altri, invece, sono del parere che senza l’aiuto pubblico difficilmente si possono fare grandi passi sulla strada dello sviluppo economico. A loro parere quelli che sono mancati sono i controlli, ma soprattutto i fondi, la maggior parte delle volte, sono stati concessi in modo clientelare. Ad esempio, in Italia la legge 488 (dal 2002 al 2008), non prevedeva che fosse una commissione composta da imprenditori a valutare la validità dei progetti, ma le banche, che ovviamente badavano ai loro interessi. In provincia di Trapani fu  finanziata la nascita di nuove cantine, nonostante nella zona ne esistessero già 80 con problemi di sopraproduzione (Report 30/3/2008). La maggior parte, così, prese i soldi per, poi, chiudere qualche anno dopo.

Per secondo, nel caso della legge innanzi citata spesso non si fece un’adeguata selezione dei destinatari, indagando sulla loro integrità morale, con il risultato di finanziare figli dei boss malavitosi, politici già più volte condannati per corruzione ecc.. Inoltre, solo in pochi casi si valutò la qualificazione professionale dei destinatari dei finanziamenti. Ad esempio si diedero soldi ad ex impiegati statali, che non avevano mai prodotto vino nella loro vita.

Per terzo, spesso le aziende gonfiavano a dismisura le spese, ad esempio facendo risultare di aver pagato il doppio i macchinari (solo perché comprati tramite una società di intermediazione) o ricorrevano a fatture false (un reato che dovrebbe essere punito con il carcere). In ultimo, i controlli non furono fatti prima di dare i soldi, ma dopo, col risultato che diventò, poi, impossibile recuperarli.

Nel caso si dà dei finanziamenti a fondo perduto, è perciò opportuno richiedere in garanzia degli immobili, in modo che in caso di una “finta industria”, si può sequestrarli. Ulteriori controlli devono essere fatti dopo l’apertura dell’azienda, per verificare che effettivamente vende prodotti. Se non si nota neanche un tentativo di commercializzarli, significa che si intende solo lucrare sui finanziamenti e non avvaire una nuova attività, per questo devono essere perseguiti penalmente.

 

Le strategie migliori. Altri consigli che vengono dall’esperienza di paesi esteri, in particolare da quella Svizzera, sono di concedere, anziché finanziamenti: suoli per insidiare le aziende a prezzi simbolici, sgravi fiscali per 5 anni e tutti i permessi gratuiti, cioè l’imprenditore si rivolge a uno sportello unico, presenta il suo progetto dettagliato, poi ci sarà un impiegato che farà tutte le trafile per lui e gli farà anche da consulente legale, in modo che saprà in anticipo se opera nella legalità. L’altra accortezza è di concedere finanziamenti solo per costruire l’edificio che deve ospitare l’azienda e per l’acquisto di macchinari grandi e costosi, non facili da portare via. In altre parole, investire in tutto ciò, che in caso di fallimento l’imprenditore non può portare via. Se mette soldi suoi per le spese comuni, sicuramente non ci proverà nemmeno.

Le cose cambiano anche a seconda della validità del progetto. Nel 2004 la regione Molise ha finanziato con 120.000 euro all’anno alcune aziende agricole per tutelare la razza del cavallo originaria nella zona del Pantano della Zittola in provincia di Isernia. Sicuramente una scelta senza una ricaduta sull’economia della zona in quanto un progetto fine a se stesso che non creava alcun indotto. Soldi che se fossero stati impiegati per produrre ad es. il diesel biologico avrebbero avuto altro esito, riducendo le importazioni di petrolio.

Come pure le cose cambiamo sensibilmente a seconda del settore a cui sono destinati i fondi. È abbastanza ingenuo finanziare la nascita di centri commerciali, in quanto anche se nascono nuovi punti vendita e si impiegano nuove persone, però sicuramente si provoca la chiusura di altri negozi nei piccoli centri. In genere, occorre essere diffidenti e non finanziare facilmente tutti gli investimenti nel settore terziario. Dar soldi per far sorgere campi di golf in piccoli paesi all’interno della Sicilia significa regalare quattrini, a volte alla mafia. È diverso il discorso se si vuole attrezzare e promuovere una località turistica. Le cose vanno valutate caso per caso.

 GLI AIUTI alle AZIENDE IN CRISI

     È una vecchia questione ancora oggi oggetto di aspre discussioni tra gli economisti: lo stato deve correre in aiuto alle aziende in crisi o lasciarle chiudere, per cambiar acqua al mercato, paragonando quest’ultimo a un acquario?

Non sono pochi gli economisti che sostengono che lo Stato deve evitare di intervenire sul mercato e lasciare che le aziende decotte, falliscono. Solo così, sostengono, si avrà quel necessario ricambio che hanno fatto il successo del capitalismo. La comunità europea, ad esempio, vieta agli Stati membri di finanziare le aziende in crisi. Il governo di Berlusconi alcuni anni fa, ad esempio, dovette ricorrere a vari espedienti per salvare l’Alitalia dal fallimento.

Altri economisti, invece, sostengono che è un grave errore, in quanto non si recupereranno mai più i posti di lavoro perduti e si perderanno per sempre know-how, tecnologie e processi produttivi. Per questo motivo bisogna sempre cercare di salvare le aziende in crisi. A riprova della loro tesi portano l’esempio di migliaia di industrie che in Italia nel passato sono state in crisi, ma poi risanate oggi mietono profitti e danno occupazione a milioni di persone.

Se si analizza la nostra storia, infatti, si scoprirà che quasi tutti i nostri gruppi industriali, nel passato, hanno avuto almeno un periodo di forte crisi. Se non si fosse provveduto a recuperarli, avremmo perso un grandissimo patrimonio produttivo e sicuramente oggi, non saremmo diventati la settima potenza industriale del mondo. Ad esempio, la FIAT, alcuni anni fa sembrava sull’orlo del fallimento. L’azienda, poi, guidata da manager capaci, fu in grado di risalire la china e tornare a occupare uno dei primi posti tra i produttori di automobili europei.

La politica del non intervento era quella prevalente fino alla crisi finanziaria del 2008, poi, la necessità di salvare le banche e, quindi, evitare una grossa crisi di tutto il sistema produttivo, ha messo in evidenza che non si può restare alla finestra quando una grossa azienda sta agonizzando. Anche nella patria del liberalismo, come gli USA, lo Stato è accorso in aiuto delle banche in difficoltà e delle aziende vicino al fallimento, come la Chrysler. Per non parlare della Gran Bretagna dove sono state nazionalizzate addirittura delle banche, un intervento ritenuto un’eresia fino ad alcuni anni fa.

Le cose, però, vanno valutate caso per caso ed è sbagliato stabilire delle regole valide in tutti i casi. Se altre aziende nazionali possono occupare la nicchia lasciata libera da quella in crisi, meglio lasciare fare alla mano invisibile del mercato. Al contrario, se chiudere una fabbrica significa aprire alle importazioni e perdere posti di lavoro e un know-how avanzato, bisogna fare tutto il possibile per salvare l’azienda dal fallimento. In effetti, oggi la globalizzazione, l’agguerrita concorrenza mondiale ha messo in evidenza un fatto incontestabile: bisogna sempre cercare di salvare le aziende in crisi per evitare di perdere preziosi posti di lavoro.

 

Le patologie del sistema. Sono molte vediamole insieme.

     Soldi per tenere aperte le industrie. Si calcola che gli industriali italiani dal 2003 al 2008 hanno goduto di sovvenzioni per un totale di circa 30 miliardi all’anno (le aziende agevolate sono state più di 840.000). E non è tutto, le imprese concorrono alle entrate dello stato solo per il 30%, mentre il 70% è dovuto alle imposte pagate dai dipendenti e dai pensionati (da un articolo del giornale “libero” del 30/9/2011). Ma le imprese non dovrebbero produrre ricchezza? Se dobbiamo pagare le industrie per non farle chiudere, tanto vale dare i sussidi di disoccupazione. Per questo motivo occorre fare di tutto affinché le imprese trovino le condizioni idonee all’investimento e poi non dare loro più niente. I finanziamenti devono essere concessi per precisi motivi, ad es. per installare un depuratore delle acque, o per far superare loro un periodo di congiuntura, ma mai foraggiarli a vita.

 

Soldi per chiudere. In altri casi gli industriali non hanno preso soldi solo per aprire, paradossalmente a volte li hanno presi “per chiudere”. Dopo l’introduzione dell’euro, quando è cominciato ad apparire chiaro che il costo del lavoro in Italia era troppo alto e che non c’erano le condizioni giuste per continuare a produrre in Italia, molte multinazionali hanno chiesto soldi allo Stato o agli enti locali per non chiudere le loro aziende in crisi.

La loro vera intenzione, però, non era quello di salvare le attività industriale, ma di prendere quanti più soldi possibili, prima di “scappare” via. Un esempio per tutti è quello della Texas Instruments, che costruiva nel centro Italia strumenti elettronici, come piccole calcolatrici. L’azienda fu venduta a una società, il cui scopo non era il rilancio o il risanamento, come fecero credere i suoi dirigenti, ma quello di portarla a morire cercando di arraffare il più possibile danaro pubblico prima di chiudere. Uno dei trucchi usati per avere prestiti dalle banche, che sono state, insieme allo stato, le vittime prescelte di questi imprenditori disonesti, è quello di raggruppare varie aziende e farle risultare in attivo, accollando il loro indebitamento a una società fuori del gruppo.

L’intervento era di alta finanza, le passività delle aziende in questione venivano cedute a una società “spazzatura”, che era una scatola vuota, in questo modo risultava che le aziende producevano utili e che, quindi, potevano essere finanziate. Quando poi, alla fine, è crollato tutto il castello, sia lo stato che le banche ci hanno perso diversi miliardi delle vecchie lire.

Anche qui valgono le avvertenze fatte nel paragrafo precedente. I finanziamenti vanno concessi valutando le cose caso per caso. È stupido mantenere aperti centri commerciali in crisi, come pure settori del terziario facilmente rimpiazzabili da altre imprese nella zona.

PROMUOVERE L’INNOVAZIONE E LA RICERCA.

    L’economista O. Blanchard ritiene indispensabili tre fattori che per la crescita: 1) L’accumulazione di capitali (l’abbiamo visto nel paragrafi sui finanziamenti alle nuove imprese); 2) Il capitale umano (“Un’economia con molti lavoratori altamente qualificati sarà sicuramente più produttiva di una nelle quali la gran parte dei lavoratori non sanno né leggere né scrivere”), di questo parleremo nel Ministero della pubblica istruzione; 3) Il progresso tecnologico. “Il progresso tecnologico può generare una maggiore produzione, a parità di quantità e capitale di lavoro (cioè maggiore produttività ndr.), può consentire prodotti migliori, pensate al continuo miglioramento della qualità e della sicurezza delle automobili, può generare nuovi prodotti, pensate all’introduzione del lettore CD, dei fax, dei telefoni cellulari e dai monitor a schermo piatto, o ampliare la gamma dei prodotti disponibili, pensate al costante aumento del numero dei prodotti presenti nei supermercati”, O, Blanchard, 2009. Non andiamo oltre perché ormai è di comune dominio che le imprese possono continuare a crescere e a fare profitti solo grazie alla innovazione e alla ricerca.

   La ricerca di base. Gli esperti distinguono la conoscenza generica da quella specifica, tecnologica. La seconda è tutelata dal brevetto che dà all’inventore il diritto esclusivo sulla conoscenza che ha prodotto e chiunque voglia utilizzarla deve corrispondere un prezzo all’inventore per ottenere il diritto di sfruttamento. Al contrario le conoscenze generiche (detti anche conoscenze di base) sono un bene pubblico, in quanto, ad esempio un matematico non può brevettare un teorema. In altre parole, una volta che il teorema viene reso pubblico chiunque può utilizzarlo gratuitamente. Le imprese, ovviamente, spendono molto in ricerca tecnologica al fine di migliorare i propri prodotti, ma il meno possibile in ricerca di base. Per esse è più conveniente comportarsi da free rider e godere delle conoscenze di base create dagli altri.

Il risultato è che se non ci pensa il governo con risorse pubbliche, la società dedica risorse troppo esigue alla creazione di nuove conoscenze di base. Nella maggior parte dei casi, infatti, le conoscenze di base hanno una ricaduta anche sulla ricerca tecnologica. Ad esempio, il finanziamento pubblico dei progetti di ricerca spaziale è giustificato dal fatto che tali progetti hanno contribuito all’ampliamento delle conoscenze. In parole povere, andando sulla luna abbiamo imparato anche molte cose che, poi, sono risultati utili alla vita di tutti giorni.

Il motivo principale per cui non si può lasciare in questo campo l’iniziativa solo ai privati è perché la ricerca richiede grandi finanziamenti e spesso i risultati sono scarsi o spendibili soltanto sul lungo periodo, a volte dopo decine di anni. Un esempio di progetto costoso, con benefici a lungo termine è la fusione nucleare. Un settore che richiede grossi investimenti e molti anni per arrivare a un suo sfruttamento economico (infatti, finora si sono visti pochi risultati concreti).

 

La ricerca applicata. È inutile evidenziare che per il successo di un’impresa la ricerca applicata è fondamentale, infatti occorre migliorare sempre i propri prodotti e introdurne di nuovi, se non si vuole essere competitivi in un mondo globalizzato. Qui il discorso è più articolato che per la ricerca di base, in quanto non può essere soltanto lo stato ad occuparsene, perciò è indispensabile una stretta collaborazione tra pubblico e privato.

La protezione dei diritti di proprietà intellettuale. Ancora più importante è la protezione legale accordata ai nuovi prodotti, in quanto senza di essa, i profitti derivante dallo sviluppo di nuovi prodotti saranno modesti. Tranne in rari casi, infatti, di solito non ci vuole molto prima che altre imprese producono lo stesso prodotto, annullando in tal modo il vantaggio iniziale dell’impresa innovatrice. Per questo in tutti paesi vi sono norme relative ai brevetti. Essi danno all’impresa che ha scoperto il prodotto, il diritto di escludere chiunque altro dalla produzione dell’uso di un nuovo prodotto per un determinato periodo di tempo. Se non si tutela sufficientemente la proprietà intellettuale le imprese non sono incoraggiate a investire considerevoli somme nella ricerca. Scarsa protezione è conveniente solo per i paesi sottosviluppati che per lo più sono solo utilizzatori e non produttori di nuove tecnologie.

 

Le problematiche. In questo caso le cose sembrano abbastanza semplici, in fondo basta  investire il più possibile nella ricerca, ma non è così. Il problema principale è la qualificazione della spesa, cioè avere i massimi risultati, con i minimi investimenti. In effetti, non basta aumentare i soldi per la ricerca, bisogna che questi fondi siano spesi bene e per i progetti migliori. I punti principali da tenere presenti tre: individuare i settori dove è più proficuo investire, stare attenti ai risultati e adottare criteri meritocratici.

La scelta del settore. Occorre innanzitutto individuare i settori per cui vale la pena di investire in innovazione, che poi sono quelli a maggior valore aggiunto. Ad esempio per la sicurezza, la difesa e lo spazio, in Italia si spende troppo poco, eppure sono le aree in cui negli ultimi anni sono nate tecnologie che hanno rivoluzionato la nostra vita come internet e il cellulare. Anche energia, salute e microelettronica meritano più attenzione. Come pure investire molti soldi sulle centrali nucleari di quarta generazione, ci potrebbe fare arrivare a costruire centrali non pericolose e non inquinanti risolvendo il grave problema, che non solo noi, ma tutto il mondo deve affrontare a breve termine, quello delle fonti di energia.

Un altro settore in cui bisognerebbe investire è quello del riciclo dei rifiuti solidi urbani. Scoprire nuove tecniche, ad esempio, per riutilizzare la plastica recuperata dalle carcasse delle automobili rottamate, ci potrebbe far risparmiare tantissimi soldi e porterebbe enormi benefici all’ambiente. Altro esempio, portare avanti una ricerca sul diesel biologico significa cercare un’alternativa al petrolio sempre più caro, con grande beneficio della nostra bilancia commerciale. Occorre, infatti, guardare con maggiore favore alle ricerche che possono avere una ricaduta commerciale, che a quelli che hanno un interesse prevalentemente teorico.

Attenzione ai risultati. Non basta spendere dei soldi, ma bisogna anche saperli spendere. Ad es., in Italia, a differenza di altri paesi europei, manca un centro di controllo della qualità e dei risultati degli studi. Nel 1998 fu approvata una legge per promuovere l’anagrafe delle ricerca, ma fino a qualche anno fa quando abbiamo scritto questo manoscritto era ancora tutto sulla carta. Occorre predisporre dei meccanismi per valutare il ritorno del denaro speso nella ricerca. In molti paesi come l’Italia nessuno sa con esattezza quale è il rapporto tra costi e benefici.

I risultati delle ricerca sono verificabili solo per via indiretta, attraverso l’andamento della bilancia tecnologica. I pochi dati disponibili in Italia denunciano una situazione sconfortante in quanto evidenziano non solo un deficit cronico tra esportazioni e importazioni di beni ad alta tecnologia, ma anche un’esiguità dei totali, che ci fa rimanere in fondo alla graduatoria dei paesi industrializzati.

   Criteri meritocratici. I progetti devono essere scelti in base alle loro potenzialità, non a logiche clientelari. È il principale motivo per cui in Italia i migliori ricercatori fuggono all’estero. Da noi prevale la logica del fai-da-te dei singoli istituti, degli appoggi politici e dell’assalto selvaggio alla diligenza dei fondi, in un Far West di gruppi di pressione dove conta di più chi in quel momento ha l’amico al posto giusto, che chi porta avanti il progetto più valido. Per sei mesi, nel periodo che passa dall’approvazione di una legge finanziaria all’impostazione di quella successiva, i capi dei grandi centri pubblici di spesa, come il Cnr o l’ASI o l’Enea, fanno la spola fra l’anticamera del Ministro di turno e quella delle commissioni parlamentari competenti a caccia degli agognati finanziamenti. Al pressing spesso si aggiungono i capi e gli amministratori delle imprese pubbliche e private interessate allo sviluppo tecnologico. Così troppo spesso migliaia di miliardi si perdono in una rete di clientele o per pagare gli stipendi di professori, impiegati e burocrati o le bollette della luce e del telefono.

Per capire come funzionano le cose basta mettere piede nel CNR. “Come in un qualsiasi sonnacchioso ministero, anche al centro delle ricerche il potere si misura in metri quadrati, chi più ne ha, più ne conta. Gli uffici dei burocrati amministrativi sono i più spaziosi e stanno nella parte più prestigiosa del palazzo, le stanze dei ricercatori invece, sono anguste e confinate nel retro, in una costruzione anonima. I professori lavorano gomito a gomito, come detenuti nelle celle di qualche carcere sovraffollato. Ogni anno la finanziaria fa piovere sugli uffici del CNR un migliaia di miliardi di lire, a cui vanno aggiunti 200 – 300 ottenuti dal centro attraverso contratti con i privati e soprattutto con l’unione europea. Di questi stanziamenti la quasi totalità se ne va per la gestione e la sopravvivenza, mentre alla ricerca vera e propria arrivano si o no un centinaio di miliardi, contesi con il coltello dai vari potentati interni” (Panorama 14-3-96).

 

LE CONDIZIONI FAVOREVOLI

agli INSEDIAMENTI PRODUTTIVI

    Il miglior modo per promuovere lo sviluppo economico e l’occupazione, comunque, è creare  condizioni favorevoli agli insediamenti produttivi. È il punto più importante, quello che spesso si tralascia di tenere in considerazione in paesi come l’Italia. I fattori più importanti sono:

 

    La stabilità politica. È una delle condizioni indispensabili. Un paese instabile politicamente, con i governi che si susseguono a distanza di alcuni mesi, con un clima di tensione e di scontri sociali, non solo è poco “invitante” per nuove industrie, ma provoca la fuga all’estero anche di quelle che ci sono.

 

L’ordine pubblico. La violenza, la presenza della mafia sul territorio impedisce il decollo economico. È uno degli aspetti più importanti che gli imprenditori prendono in considerazione prima di fare un investimento in un paese straniero. Se come si aprono i battenti qualche mafioso si presenta per chiedere “il pizzo”, nessuno mai si azzarderà più a fare investimenti in quella zona. L’estorsione è il reato più dannoso per l’economia. L’insicurezza e la presenza di microcriminalità diffusa, infatti, è motivo di depressione economica, anzi spesso ne diventa il motivo principale. Prendiamo il caso del Guatemala. Ogni giorno si commettono in questo paese centro americano (l’articolo è del 5-9-96, Panorama) una decina di assassini, tre rapimenti, una ventina di furti d’auto, un numero imprecisato di rapine e assalti. Ma non è un caso isolato nel Centro America. Lo stesso discorso valeva anche per Nicaragua e Honduras. E nel piccolo Salvador, con appena 5 milioni e mezzo di abitanti, sempre nel ’96, si verificavano 21 delitti al giorno, 500 rapine, 30 furti d’auto e 5 violenze sessuali. In Guatemala il turismo, che era la principale fonte di reddito, scese del 6% nei primi quattro mesi di quell’anno. Le cose, poi, sono migliorate un po’.

 

Il costo del lavoro. È il punto più dolente del nostro sistema economico. In Italia, anche a causa della supervalutazione dell’euro, dell’imposizione fiscale e dei contributi sociali che gravano pesantemente sul salario, ha un costo eccessivo. Se si vuol diventare competitivi bisogna trovare il modo per ridurlo.

Attenzione, però, il costo del lavoro non è determinato soltanto dalle retribuzioni, ma anche dall’orario di lavoro. In Cina si arriva a 72 ore la settimana, ma anche in Stati Uniti e in Germania si lavora di più che da noi. Se si vuol recuperare competitività bisogna aumentare l’orario di lavoro almeno di mezz’ora al giorno (portandolo a 42 ore settimanali) e lavorare per un numero maggiore di giornate, riducendo il numero di giornate festive, che nel nostro paese sono tante. Ad esempio, nel periodo natalizio le industrie restano ferme o lavorano a ritmi ridotti per quasi 20 giorni.

 

Rigidità del mercato del lavoro. Da un’inchiesta della Repubblica del 10 maggio 2005 è risultato che gli elementi di base più apprezzati dagli imprenditori sono la vivacità socio economica, la disciplina, la presenza di infrastrutture efficienti, ma soprattutto la possibilità di organizzare il lavoro contando su una flessibilità maggiore che in altri paesi. Vale per tutti l’esempio dell’accordo raggiunto nel passato per la Seat in Spagna, che prevedeva la possibilità di adeguare la produzione ai cali di richieste del mercato (riducendo proporzionalmente le giornate di lavoro) senza modificare il salario, ma con la possibilità di recuperare i giorni non lavorati, quando se ne presentava la necessità.

 

Libertà di assumere. Se gli imprenditori sono costretti ad assumere il personale indicato dall’ufficio di collocamento e non possono in alcun modo selezionare i dipendenti, spesso evitano di aprire nuove aziende o di ampliare il proprio personale. Anche la possibilità di licenziare i dipendenti che si dimostrano inefficienti o poco produttivi, è molto importante. L’imprenditore napoletano Mario Marone, in un’intervista al sole 24 ore (21/12/05), ha dichiarato: “Io stesso assumerei di più se i margini per licenziare in caso di ciclo congiunturale negativo e di calo della domanda, fossero più ampi”. Sull’argomento ci torneremo nel capitolo riguardante il Ministero del lavoro.

 

   La formazione. Contare su buoni tecnici, sulla presenza di personale specializzato è molto importante. È uno dei segreti del successo cinese. A spingere l’economia del gigante asiatico non è solo il basso costo del lavoro, ma anche il fatto che le università cinesi sfornano ottimi ingegneri e buoni tecnici a tutti i livelli.

Nel nostro paese, invece, si investe poco nella scuola e nelle università. Il laureato spesso ha una formazione che non serve nelle imprese. È una delle cause del declino italiano, secondo il presidente della conferenza dei rettori Pietro Tosi (la Repubblica 16/11/2005). In effetti, c’è molta attenzione per le facoltà umanistiche e poco afflusso a quelle tecniche. Ad esempio, alla facoltà di ingegneria di Pavia, nel 2004, c’erano solo 4 iscritti.

 

La conflittualità sindacale. È un altro fattore importante, in quanto la presenza di una classe operaia molto sindacalizzata e tenace nel dare battaglia per i propri interessi, disincentiva qualsiasi imprenditore. Conta pure che esista una buona regolamentazione del diritto di sciopero che scoraggi il ricorso alle forme di lotta più estrema (ci torneremo nel capitolo: Ministero del lavoro). Una classe operaia matura, responsabile, guidata da sindacalisti che ricorrano allo sciopero soltanto in casi estremi, quando sono fallite tutte le altre vie, invece, è un fattore determinante, che invoglia gli imprenditori a investire.

 

La disaffezione al lavoro. È uno dei fattori che spesso non si tiene nella dovuta considerazione. Anni di politica sociale, di assistenzialismo e di “ipergarantismo” sindacale possono produrre anche questo: una scarsa affezione al lavoro. Molti lavoratori non si impegnano più di tanto, male che va, andranno in cassa integrazione, cioè resteranno a casa prendendo una paga leggermente inferiore. Gli imprenditori, forse, esagerano quando dicono che gli italiani non hanno più voglia di lavorare e che bisogna ricorrere ai lavoratori extracomunitari, ma c’è del vero nelle loro affermazioni.

 

    Il lavoro nero. Luigi Zingalese dell’Università di Chicago, in un’intervista a un noto giornale, ha dichiarato: “Al primo posto tra le misure per rilanciare l’economia metterei una riforma del fisco che contrasti l’evasione e il sommerso, fenomeni che hanno per l’economia costi che vanno ben al di là della semplice perdita di gettito”. Se gli imprenditori disonesti possono ricorrere al lavoro nero, avranno dei costi inferiori a quello delle imprese concorrenti, che prima o poi si troveranno in difficoltà.

 

Il sistema creditizio. Nella pratica la maggior parte degli individui e delle imprese possono prendere a prestito solo dalle banche, che spesso rifiutano prestiti nonostante i potenziali clienti siano disponibili a pagare il tasso d’interesse prevalente. In altre parole si possono creare, questo per vari motivi, delle crisi di liquidità. Succede per lo più in tempi di recessione e quanto le prospettive per il futuro sono abbastanza pessimiste (teoria del consumo basata sulle aspettative). È chiaro che in questi casi deve essere lo stato ad intervenire per sbloccare il sistema, rimuovendo le cause.

 

Le aspettative. Se gli imprenditori hanno fiducia nel sistema economico sono pronti ad investire, in caso contrario o si chiudono in difesa, cioè si limitano al minimo in attese di tempi migliore o de localizzano all’estero. Il risultato è un periodo di stagnazione o di recessione. Come nel caso precedente deve essere il governo ad intervenire per sbloccare il sistema, rimuovendo le cause.

 

LE CONCLUSIONI. Le osservazioni fatte nei punti precedenti ci portano a due importanti conclusioni:

1 – Il modo più efficace per promuovere lo sviluppo e creare posti di lavoro, è quello di rimuovere tutti i fattori che scoraggiano gli imprenditori ad aprire nuove aziende. Se non ci sono le condizioni favorevoli, infatti, non solo non si creano nuovi posti di lavoro, ma le industrie nazionali fuggono all’estero attirate da un fisco meno vorace, dal costo del lavoro e del denaro più bassi. E ciò che si è verificato in Italia ad iniziare dal 2002.

2 – Per promuovere lo sviluppo occorre agire su un’insieme di fattori, non basta concedere dei finanziamenti a fondo perduto o abbassare il tasso di sconto. È come nel poker avere due o tre buone carte non serve a molto, per vincere bisogna avere una certa combinazione. Per questo motivo non bisogna agire su un solo fattore, ma su tutti quelli importanti in quel caso. Ad esempio, non serve a niente creare ottime infrastrutture se poi non c’è tecnologia e competitività o il costo del lavoro è troppo alto.

ALTRI FATTORI FONDAMENTALI

PER FAVORIRE LO SVILUPPO

    I punti esposti sopra non costituiscono gli unici fattori da tenere presente per favorire lo sviluppo e creare nuovi posti di lavoro, ce ne sono anche altri spesso molto importanti. Vediamoli insieme:

 

Specializzazione. Nella nuova divisione internazionale del lavoro non si può pensare di produrre tutto, ma bisogna specializzarsi in alcuni settori come hanno fatto la Svezia, l’Olanda o la Svizzera. E questi settori non possono che essere quelli in cui l’Italia ha una lunga tradizione: la moda, le calzature, le specialità gastronomiche ecc.. Il segreto di un’attenta politica economica è, quindi, lasciare stare i settori dove abbiamo scarse attitudini (e nessuna tradizione) e cercare di sviluppare quelli in cui possiamo riuscire meglio.

Nanismo delle imprese. Con il 94% l’Italia è il paese dell’unione europea che ha la percentuale di microimprese più elevata. Un sistema basato prevalentemente su produzioni manifatturiere a basso valore aggiunto, quindi facile preda nelle lavorazioni a basso costo della Cina e delle economie emergenti. La maggior parte delle aziende è organizzata a misura del fondatore, che fatica a condividere i programmi di sviluppo con il mercato e con il sistema bancario. Da noi le piccole e medie aziende con poco capitale da destinare allo sviluppo e un assetto strategico di corto respiro, rappresentano il 63% del prodotto interno lordo.

La strada da seguire è quella dell’unione, come hanno fatto dalle parti di Parma, dove 524 caseifici si sono raggruppati nel consorzio di tutela del parmigiano reggiano. Nel 2003 i piccoli produttori si sono riuniti per piazzare sul mercato 113.455 tonnellate di formaggio, ma la soddisfazione maggiore è arrivata l’anno dopo, quando hanno portato la Germania sul banco degli imputati alla Corte di Giustizia, per il “Parmesan”. È anche la strada intrapresa dagli istituti di credito spagnoli. Sempre con l’appoggio governativo hanno realizzato una serie di fusioni a catena, che li hanno resi potentissimi e quasi inattaccabili dall’esterno, è stato il loro modo di presentarsi in Europa. Nel giro di 10 anni sette grandi “bancos” si sono fuse e già nel 1999 rimanevano due soli giganti, che poi sono andati all’attacco dappertutto: acquisizioni negli Stati Uniti e in America Latina.

 

Sano nazionalismo. In fatto di economia essere un po’ nazionalisti è indispensabile, cioè ogni governo che vuole promuovere lo sviluppo deve favorire la produzione nazionale e scoraggiare, senza cadere in eccessi protezionisti, l’importazione di prodotti stranieri. Se un paese è troppo aperto (come l’Italia) alla penetrazione dei prodotti esteri, prima o poi si ritroverà in difficoltà.

Si fa presto a parlare di globalizzazione, di mercato mondiale e di scambi liberi, la verità è molto più semplice: per adesso, fino a che le cose non cambieranno, ogni paese deve difendere i propri interessi economici. Sono pochi quelli che si possono permettere di essere completamente liberisti, in pratica soltanto i paesi tecnologicamente avanzati che non temono la concorrenza del terzo mondo.

I paesi che non sono così fortunati, né hanno materie prime, non hanno altra possibilità che, in tutti i settori, da quello industriale a quello agricolo, a quello  artistico, come cinema, letteratura, arte ecc., spingere al massimo i prodotti nazionali. Bisogna rifuggire dall’autarchia economica e culturale, ma anche evitare l’eccesso opposto: essere troppo aperti altrimenti si finisce per essere invasi e colonizzati dai prodotti provenienti degli stati esteri, meglio organizzati di noi o con costi di produzione inferiori ai nostri.

 

GLI ERRORI DA NON FARE

    Nei paragrafi precedenti abbiamo visto i fattori più importanti per promuovere sviluppo e occupazione, in questo ci occuperemo degli errori più frequenti.

Produttori e servizi. Uno degli errori più comuni che fanno i politici è quello di mettere tutte le attività, ad esempio produzione e servizi, sullo stesso piano. Una cosa è, infatti, finanziare la ristrutturazione di un negozio o l’apertura di un supermercato, in cui si creano posti di lavori teorici, e una cosa è favorire la nascita di nuove industrie che producono merci che prima si importavano dall’estero. Ogni supermercato che apre, fa chiudere 20 piccoli esercizi commerciali, quindi, in realtà, anche se si migliora l’efficienza distributiva, non si creano affatto nuovi posti di lavori. Anzi quasi sempre si ha una diminuzione dei posti di lavoro, prima con i 20 esercizi commerciali ci vivevano 20 famiglie, dopo ci sono 10 commessi in più, che con quello che guadagnano sfamano appena se stessi. Non solo, ma 20 esercizi commerciali pagano più tasse di un solo supermercato che vende per 20.

In effetti, quando si promuove la nascita di nuove aziende bisogna distinguere le 3 categorie: produttori, distributori e i servizi. I veri posti di lavori sono quelli che si creano nella produzione, cioè nei settori che ci evitano di importare merci dall’estero e concorrono alla nostra bilancia dei pagamenti.

Nella distribuzione, ossia nel commercio, il numero degli addetti non varia molto anche se si investono molti soldi. Se si aprono nuovi negozi, ne chiudono altri. Il livello dell’occupazione in questo settore non dipende da una migliore organizzazione della rete (in quanto il consumatore, tranne in rari casi, non può recarsi all’estero per i suoi acquisti), ma dalle possibilità economiche dei cittadini. Più soldi hanno in tasca, più sono disponibili ad acquistare, più aumenta il giro di affari, e di conseguenza il numero di occupati nel settore.

I posti di lavoro nel terziario, cioè nei servizi, poi, sono posti pagati dalla collettività. In parole povere, se aumenta il numero dei vigili urbani, il comune per far fronte a queste nuove spese sarà costretto ad aumentare le tasse. Altro esempio, creare una cooperativa di parcheggiatori non significa creare posti di lavoro, ma mettere una “tassa” sugli automobilisti che sono costretti a parcheggiare in quel posto. Si può pensare di ampliare l’occupazione nel terziario soltanto se dietro di esso c’è un’economia in espansione, non un paese in crisi.

 

LA DISOCCUPAZIONE

    Un argomento spesso al centro dei dibattiti politici, di cui tutti parlano, ma spesso nessuno affronta il problema in modo scientifico. Proveremo a farlo noi.

Cosa ne dicono gli economisti. Il fenomeno della disoccupazione, prima della pubblicazione, avvenuta nel 1936, della Teoria generale di John Maynard Keynes, veniva spiegato semplicemente con la rigidità del mercato del lavoro. Secondo Smith e altri economisti classici, la disoccupazione si manifesta allorché i salari non scendono in misura sufficiente a consentire l’equilibrio del mercato. Alla base di tale modello del mercato del lavoro è sottintesa l’idea di un meccanismo di riequilibrio: in caso di disoccupazione su vasta scala, le pressioni esercitate dai lavoratori in cerca di occupazione fanno scendere i salari al livello in cui, da un lato, alcuni di loro sono costretti a uscire dal mercato (facendo quindi diminuire l’offerta di lavoro) e, dall’altro, le imprese sono maggiormente disposte a utilizzare il fattore lavoro in seguito alla riduzione del suo costo, che lo rende più remunerativo.

La disoccupazione, sempre secondo questi teorici, perciò, permane quando le rigidità impediscono al salario di scendere ad un livello di equilibrio, in corrispondenza del quale l’offerta e la domanda di lavoro si eguagliano di nuovo. Una delle principali cause di disoccupazione,  secondo questa posizione, è l’azione dei sindacati, volta ad aumentare i salari o almeno a garantire un minimo salariale. Impedendo alle retribuzioni di scendere, non si incoraggia perciò gli  imprenditori ad assumere nuovi lavoratori.

Uno dei primi a criticare questa teoria fu Ricardo che giustamente osservò che i salari non sono comprimibili oltre il livello di sostentamento del lavoratore. Se quest’ultimo non guadagna almeno abbastanza per sopravvivere, può rinunciare al lavoro. Il secondo punto debole è che in mondo tecnologicamente avanzato si può diminuire i salari quando si vuole, ma se non esiste manodopera specializzata nessuna azienda potrà andare avanti. È questo il problema principale di molto paesi in via di sviluppo: abbondanza di mano d’opera ma carenza di professionalità.

 

    Il modello keynesiano. Il modo di vedere degli economisti cambiò completamente con Keynes, che incominciò a considerare la disoccupazione come un fenomeno causato dall’insufficienza della domanda di beni, anziché da uno squilibrio nel mercato del lavoro. In altre parole, se non c’è domanda di beni, non c’è produzione e di conseguenza l’occupazione cala. L’insufficienza della domanda secondo Keynes può essere generata dall’incapacità degli investimenti programmati di assorbire per intero i risparmi. Per l’economista americano, infatti, il risparmio costituisce una “perdita” per il flusso circolare entro il quale i redditi generati dalla produzione di beni e servizi vengono reimmessi nella domanda di altri beni e servizi. Gli investimenti reali, definiti “accumulazione di capitale fisico” (ossia produzione di macchinari, stabilimenti, case ecc.), hanno, invece, l’effetto opposto: costituiscono cioè un’iniezione in quel flusso circolare che collega il reddito alla produzione, e quindi tendono a aumentare il livello della domanda di lavoro.

Nei primi modelli classici della disoccupazione, come quello sopra descritto, l’insufficienza della domanda aggregata di beni e servizi (definita in breve “mercato dei beni”) non veniva considerata, poiché si credeva che eventuali squilibri tra risparmi e investimenti fossero riequilibrati dalle variazioni dei tassi di interesse. Ad esempio, quando il risparmio programmato eccede l’investimento programmato, il tasso di interesse si riduce; ciò, a sua volta, riduce l’offerta di risparmio e allo tempo stesso accresce il desiderio delle imprese di prendere a prestito denaro per investirlo in macchinari, costruzioni e così via.

Nel modello keynesiano sono, invece, le variazioni del prodotto e del reddito il fattore di riequilibrio che determina l’uguaglianza delle decisioni di risparmio e di investimento e, quindi, il livello di equilibrio del reddito e del prodotto nazionale. Inoltre, secondo Keynes, una riduzione dei salari in una situazione di questo tipo non avrebbe alcuna ripercussione positiva sulla disoccupazione, per una serie di ragioni, prima fra tutte perché riduce la domanda interna con relativa riduzione della produzione.

L’enfasi della teoria keynesiana sulla domanda, quale fattore determinante del livello di produzione nel breve periodo, stimolò sviluppi in altri campi della macroeconomia: creò, ad esempio, i presupposti per la formalizzazione dei principi di contabilità del reddito nazionale, definiti utilizzando le fondamentali categorie sostitutive della “domanda finale”, spesa per consumi, spesa per la formazione di capitale, spesa pubblica, esportazioni e importazioni, così denominata per contrapposizione a quella dei beni intermedi.

 

Il modello keynesiano non è stato l’ultimo, altri studiosi in questi ultimi decenni hanno avanzato le loro teorie. Le tesi prevalenti fino al 2008, anno della disastrosa crisi finanziaria, erano quelle liberaliste, assolutamente contrarie a qualsiasi intervento dello stato e alla privatizzazione persino delle public utilities. Ad esempio A. Friedman, uno degli apostoli del ritorno alla mano invisibile del mercato ha scritto: “Si dovranno ridurre le tasse sull’impiego per incentivare le assunzioni”. Difatti la politica di una significativa riduzione della pressione fiscale, incominciata da Reagan, è uno dei pilastri del modello portata avanti da questa corrente di economisti.

Dopo il 2008, la tendenza si è invertita, anche se ancora non si è capito la direzione che sta prendendo questa nuova generazione di economisti. Molti sono per ridare allo Stato una funzione guida dell’economia, in quanto i mercati lasciati a se stessi possono incappare in crisi disastrose, ma sono ancora forti le resistenze, soprattutto in ambito universitario, dei liberisti puri. In effetti, ci sono tutte le premesse affinché, passata la bufera finanziaria, ritornino a prevalere le tesi neoliberiste.

La globalizzazione. A complicare, poi, ancora di più le cose ci ha pensato la globalizzazione dei mercati, che ha reso di un sol colpo queste teorie in parte superate. Oggi, infatti, non è pensabile affrontare il problema della disoccupazione senza inquadrarlo in uno scenario più ampio, che è quello internazionale. Ad esempio, vanno tenuti presenti fenomeni importantissimi come la delocalizzazione delle industrie nei paesi del terzo mondo o il tasso di cambio della moneta nazionale. Chiaramente i paesi che hanno una moneta debole sono avvantaggiati perché le loro merci costano meno, mentre quelli che hanno un valuta forte, come l’euro, possono fronteggiare la selvaggia concorrenza internazionale solo puntando su prodotti tecnologicamente avanzati. Inoltre, possono sperare di essere competitivi soltanto abbassando i propri costi di produzione, ad esempio riducendo la pressione fiscale e aumentando la produttività.

LE CAUSE DELLA DISOCCUPAZIONE

    La disoccupazione, come abbiamo visto, è un problema molto complesso e di difficile soluzione. È, infatti, facile promettere, come spesso fanno certi politici: “un milione di posti di lavoro”, le difficoltà sorgono quando si va a realizzare concretamente questo proposito. Il primo passo per affrontare il problema è quello di cercare di capire le cause all’origine della
disoccupazione. Come c’era da aspettarsi sono piuttosto numerose, vediamole brevemente una alla volta:

Crisi economica. È la causa principale, se un paese perde competitività e il sistema entra in crisi, si creano subito delle sacche di disoccupazione. Non andiamo oltre perché ne abbiamo parlato nelle pagine precedenti.

Forte incremento demografico. Quando la popolazione aumenta troppo rapidamente, raramente si riescono a creare abbastanza posti di lavoro per tenere dietro a questo incremento.

Il rimedio, in questi casi (che riguardano soprattutto i paesi del terzo mondo) è semplice, anche se difficile da mettere in pratica: controllo demografico. Bisogna convincere la popolazione a fare meno figli, non più di 2 a coppia.

Immigrazione incontrollata. Se si fa entrare senza alcun filtro gente dai paesi in via di sviluppo che si accontenta di paghe da fame, resta poi difficile per i lavoratori locali non qualificati trovare un’occupazione. L’abbiamo detto altrove, l’immigrazione va regolata, altrimenti porterà più danni che benefici.

Concorrenza internazionale. Uno dei motivi più frequenti di crisi ai nostri giorni sono i costi di produzione troppo alti, soprattutto a causa del cambio sfavorevole. Chi ha una moneta molto forte, chiaramente ha difficoltà a esportare e a reggere la concorrenza dei paesi del terzo mondo. Non andiamo oltre perché ne abbiamo parlato nelle pagine precedenti.

Mancanza di capitali. Se in un paese ci sono le capacità, ma mancano i capitali per avviare nuove imprese, difficilmente si riuscirà a creare occupazione. Questo caso non riguarda soltanto i paesi sottosviluppati, ma anche molti paesi dell’Occidente. Un rimedio ovvio sono i finanziamenti pubblici, però bisogna saperli erogare altrimenti diventeranno solo un’occasione di corruzione e clientelismo.

Carenza di imprenditori. Se in un paese manca una classe imprenditoriale preparata, capace non solo di mettere su un’industria ma anche di gestirla, non si creerà mai nuova occupazione. In questo caso deve essere lo Stato a favorire la formazione di una classe imprenditoriale qualificata e di nuovi manager, se mai con corsi universitari gratuiti.

Carenza di manodopera qualificata. Non di rado le industrie non riescono a nascere o ad ampliarsi perché manca loro personale qualificato. In questo caso bisogna organizzare dei corsi di qualificazione, i cui costi dovrebbero essere coperti in parte dagli enti pubblici e in parte dalle aziende private.

    Disoccupazione da automatizzazione. Il progresso tecnologico, si pensi, ad esempio all’introduzione dei computer, fa sì che, ogni anno che passa, per produrre lo stesso bene c’è bisogno sempre meno di manodopera. Non andiamo oltre perché approfondiremo l’argomento nel paragrafo successivo.

 

SVILUPPO TECNOLOGICO E OCCUPAZIONE

    Un economista degli anni 30, Joseph Schumpeter sosteneva che, grosso modo ogni mezzo secolo, lo sviluppo stesso del capitalismo produceva una crisi profonda delle strutture produttive che apriva la strada a un nuovo ciclo di sviluppo. Alla fine del ‘700 il vapore fu all’origine della rivoluzione industriale, poi vennero lo sviluppo delle ferrovie, la diffusione dell’energia elettrica e l’era delle automobili. Oggi siamo in piena età informatica. Ognuno di questi cicli ha cancellato intere categorie professionali, ma per fortuna altre ne sono nate. Il problema è che le conseguenze negative, ovvero le crisi industriali e i licenziamenti, si avvertono all’inizio del ciclo; mentre i vantaggi, cioè la crescita della ricchezza e l’affermarsi delle nuove professioni, solo quando lo stesso ciclo è maturo.

In passato, ci sono stati dei tentativi di arginare il progresso tecnologico allo scopo di evitare perdite di posti di lavoro (o dell’estinzione di intere categorie di lavoratori), basti pensare alle Corporazioni delle arti e mestieri, nel XII secolo, che non solo controllavano il rispetto dei propri statuti con un’attenta e continua supervisione delle botteghe, ma avevano bandito qualsiasi miglioramento tecnico in grado di permettere a una bottega di produrre economicamente più di un’altra.

Più tardi, fortunatamente si capì che non si poteva “imbrigliare” la scienza, altrimenti si fermava il progresso. Era assurdo continuare a fabbricare i prodotti allo stesso modo, cioè con una tecnologia antiquata, soltanto per non perdere posti di lavoro.

Oggi questo problema si pone con maggiore enfasi, perché siamo riusciti a creare le prime fabbriche completamente automatizzate, che cioè funzionano solo con robot (i dipendenti devono limitarsi a controllare il ciclo produttivo). Tuttavia si è capito che le perdite di posti di lavoro a causa del progresso tecnologico è inevitabile. Non è ipotizzabile un “arresto” della tecnologa, se non altro perché gli altri paesi ci passerebbero avanti.

In secondo luogo, il progresso tecnologico non distrugge solo, ma crea anche nuove opportunità di lavoro. Si pensi, ad esempio, a quanti posti di lavoro ha creato l’invenzione dei moderni cellulari, un aggeggio elettronico che solo 40 anni fa non esisteva.

Sarà lo stesso in futuro, per tutte le attività finalizzate alla tutela dell’ambiente, un settore che da solo arriverà a occupare molti più posti di quando l’invenzione del computer ne ha cancellati. Lo sviluppo di fonti di energia alternative, di sistemi per riciclare i rifiuti solidi urbani saranno i settori dove in futuro si creerà maggiore occupazione.

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