9 – COMMERCIO CON L’ESTERO

CAPITOLO IX

MINISTERO COMMERCIO ESTERO

L’attenzione degli economisti, fino a non molti anni fa, era diretta soprattutto a ciò che succedeva all’interno del paese, poi le cose sono cambiate. Oggi, poiché l’economia della maggior parte dei paesi è diventata sempre più aperta, il commercio con l’estero è ormai un aspetto prominente dell’economia. Ad esempio, le esportazioni e le importazioni negli anni ‘60 erano pari soltanto al 5% del Pil degli Stati Uniti, nel 2.008 ammontavano invece a circa il 14% del Pil. Ciò significa che oggi gli Stati Uniti commerciano con il resto del mondo in misura doppia di quanto non facessero cinquanta anni fa.

Il commercio con l’estero, perciò, è diventato un aspetto prominente della politica economica di ogni paese e lo sarà sempre di più nel futuro. Una politica economica di scambi economici poco previdente, infatti, dato che la concorrenza internazionale è diventata forte e agguerrita, può mettere in ginocchio una nazione anche molto prospera. Ma andiamo con ordine.

Per commercio internazionale non si intende solo l’insieme degli scambi di beni fra nazioni (prodotti agricoli, prodotti industriali finiti e semilavorati), ma anche la circolazione di capitali, di imprese e lavoratori.

 

Esistono, infatti, 4 tipi di mercati:

1 – I mercati dei beni (merci). Riguarda la circolazione di prodotti industriali e agricoli in tutto il mondo, che in nessun paese è del tutto libera da vincoli. È il mercato più importante perché produrre molti beni, esportandoli nel mondo, significa creare lavoro e benessere.

 

2 – I mercati finanziari (capitali), ossia libera circolazione di capitali. In pratica oggi è possibile investire i propri soldi in attività finanziarie in tutto il mondo. Ricordiamo che, di solito, la maggior parte delle transazioni in valuta non è associata al commercio internazionale, ma alla compravendita di attività finanziarie (che è anche in aumento). Quasi tutti i paesi cercano capitali finanziandosi con obbligazioni di vario tipo sui mercati mondiali.

 

3 – I mercati dei fattori (imprese). Riguarda l’opportunità per le imprese di localizzare all’estero le proprie attività produttive o di aprire una filiale. Oggi esistono moltissime multinazionali che gestiscono impianti in diversi paesi o esportano le loro attività per sfruttare i possibili vantaggi di costo. Anche questo mercato è particolarmente importante per la gente comune perché attirare imprese sul proprio territorio favorisce l’occupazione e aumenta il benessere. Al contrario se le industrie nazionali fuggono all’estero si crea disoccupazione e recessione.

 

4 – Il mercato del lavoro (lavoratori). L’immigrazione dai paesi poveri a quelli sviluppati, come Usa ed Europa, è diventato un fenomeno di grande rilevanza, da tenere presente in tutte le analisi economiche. Ne parleremo nel capitolo “Ministero del lavoro” a proposito dei flussi migratori.

 

Le problematiche. In questo caso la questione primaria è soprattutto una: apertura totale dei propri mercati agli scambi economici con l’estero o attuare forme di protezionismo per tutelare la propria economia interna? È una domanda che va ripetuta per ognuno dei mercati sopra citati.

 

L’IMPERIALISMO ECONOMICO

    Esistono due tipi di imperialismo, di tipo politico – militare, che generò il colonialismo nel secolo scorso, per fortuna ormai quasi del tutto tramontato, e l’imperialismo economico, che purtroppo sta prendendo sempre più il posto del primo.

Negli anni in cui scriviamo è la Cina il paese che, più degli altri, porta avanti questo tipo di politica espansionistica mentre pochi anni fa erano gli USA e l’Inghilterra, che tuttavia (soprattutto i primi) continuano a perseguire.

Oggi un paese non si conquista più con i carri armati, imponendole un regime politico come tentò di fare Hitler, ma comprando le sue industrie nazionali più importanti, impossessandosi economicamente delle sue materie prime, colonizzandolo con milioni di immigrati che, a poco a poco, facendo convergere i propri voti sui partiti “amici” arrivano al potere ecc.. In Africa i cinesi influenzano sensibilmente molti regimi politici semplicemente finanziando le campagne elettorali di alcuni partiti e controllando molti settori vitali come il commercio.

Ma andiamo con ordine: si fa presto a parlare di globalizzazione di libero mercato, di mercati aperti ecc. ma ciò significa fa scendere in campo supercampioni (paesi ricchi e avanzati) e persone che hanno alle spalle solo poche ore di allenamento (paesi più poveri) e handicappati, cioè paesi in via di sviluppo diretti da una classe politica corrotta e incompetente. Quindi se i concorrenti non sono alla pari, neanche la competizione è alla pari.

Come non bastasse, sui mercati mondiali ci sono paesi per perseguono chiaramente una politica di espansione economica. In Europa abbiamo la Germania, che non ha mai abbandonato il sogno di dominare il vecchio continente, in medio oriente la Turchia, ad est la Russia ecc, ed infine la Cina che attraverso una fitta rete di connazionali che hanno aperto negozi in tutti i paesi del mondo vendono i loro prodotti dell’industria (anche l’India non scherza); non dimentichiamo gli Usa, che continua ad essere presente in tutto il mondo anche militarmente e la Gran Bretagna (anche se la sua influenza si è ridotta sensibilmente negli ultimi decenni). Ci fermiamo qui, ma l’elenco potrebbe continuare a lungo: in Africa abbiamo la Repubblica Sudafricana, in sud America in Brasile ecc..

 

In effetti abbiamo l’espansionistico militare che, come abbiamo detto, quasi del tutto tramontato, poi abbiamo l’espansionismo di tipo demografico. Non è un segreto che i paesi islamici stanno “conquistando” a poco a poco l’Europa, continuando ad arrivare e a fare più figli degli europei … in una democrazia, a poco a poco, diventeranno la maggioranza. Si parla apertamente di islamizzazione dell’Europa. È un processo lento ma arriveremo al punto che il numero di moschee supererà quelle chiese.

Il più pericoloso, ma soprattutto il più infido, è l’espansionismo economico. Tra pochi anni tutto il commercio in Italia sarà nelle mani dei cinesi. È di pochi giorni fa la notizia che la Cina ha svalutato di nuovo la propria moneta del 3,5% rilanciando le esportazioni, dopo un periodo di rallentamento (e i paesi occidentali glielo lasciano fare senza adottare contromisure economiche “in virtù” sempre del libero mercato). Noi siamo ancorati all’euro, una delle monete più forti del mondo, e oppressi da un regime fiscale vorace, e allora non puoi fare altro che chiudere la fabbrica tessile, lasciare gli operai a casa e dare lavoro a quelli cinesi.

I modi per fare concorrenza sleale sono molti, come diremo più avanti: ad es. non usare costose misure antinquinamento; per questo motivo è giusto diffidare da teorie neo liberiste, erano valide nel passato, quando la concorrenza era leale, non oggi. Oggi, è duro ammetterlo, i paesi poveri, quelli in difficoltà ecc. senza misure protettive dei propri mercati possono finire in povertà e colonizzati.

Ma abbandoniamo discorsi generali e vediamo caso per caso ognuno dei 4 mercati. Incominciamo dai casi più semplici: il mercato dei capitali e quello del lavoro.

 

I MERCATI FINANZIARI (CAPITALI)

    L’apertura di mercati finanziari può avere una grande importanza economica: permettere al paese di registrare avanzi o disavanzi commerciali, in quanto l’afflusso di capitali (come in Svizzera) o la fuga di capitali (come in Grecia nel 2015, per fortuna protetta dall’euro) può influenzare significativamente il cambio. Per questo motivo, anche se la maggioranza degli economisti vede positivamente l’ingresso di nuove risorse finanziarie, in quanto significa nuova linfa per il proprio sviluppo, infatti, le cose sono sempre da valutare caso per caso.

È vero, tranne casi isolati pochi paesi mantengono controlli ai movimenti di capitali, cioè restrizioni ai propri residenti di detenere attività finanziarie estere o sono contrarie all’afflusso di denaro dall’estero. Ad esempio, è ritenuto un fatto positivo che gli americani comprino buoni del Tesoro italiani, finanziando così il nostro debito pubblico. Ne sono una dimostrazione i paradisi fiscali, che spesso vivono soltanto di capitali, ossia sono diventati delle “casseforti” per nababbi.

L’atteggiamento dei paesi, però, ha iniziato a cambiare dopo il 2.000. Ad esempio, ci sono stati paesi, come il Brasile, che hanno posto severi limiti all’ingresso di nuovi capitali per evitare che la propria moneta si rivalutasse eccessivamente (il “Real” era arrivato fino a 1,80 per euro, poi la banca centrale è riuscita a riportare il cambio prima a 2,3, poi a 3,00), nuocendo alle esportazioni. Anche la Svizzera negli anni dopo il 2014 ha fatto capire di non desiderare nuovi capitali provenienti dall’Europa per evitare una eccessiva rivalutazione della propria moneta.

A nostro avviso, perciò, è sbagliato stabilire regole assolute, cioè se bisogna aprire del tutto all’acceso di capitali o no, ma occorre vedere caso per caso quale è la cosa migliore per il proprio paese in quel momento. Inoltre una cosa sono i capitali che entrano per essere investiti in attività industriali, creando benessere e occupazione, ed una cosa sono i capitali che vengono investiti in immobili, affittati poi alla popolazione locale, le cui rendite se ne vanno poi all’estero o quelli per edificare villaggi turistici in cui proventi finiscono nelle tasche di multinazionali con residenza nei paradisi fiscali. Occorre non dare mai per scontato che l’entrata di capitali è un fatto positivo, può esserlo all’inizio ma poi con il tempo si può trasformare in un impoverimento per il paese a danno degli imprenditori e dei lavoratori locali. Ormai non esistono più certezze.

In linea generale, per i piccoli paesi, particolarmente quelli in via di sviluppo, è auspicabile adottare delle misure per proteggersi da quelli “grandi”, come limitare l’afflusso di capitali o l’arrivo di multinazionali che impediscono la nascita di imprese locali. Teoricamente la globalizzazione dei mercati porta vantaggi per tutti, ma nella pratica significa che dei nanetti devono affrontare dei giganti, mettere sul ring un pugile peso leggero contro un peso massimo. Per questo motivo siamo molto scettici riguardo a teorie liberaliste o che la globalizzazione, con il mondo ridotto a un unico mercato, possa produrre effettivamente reali vantaggi per tutti. Questi teorie liberiste vanno a vantaggio dei grandi capitali, dei paesi ricchi che praticano l’espansionismo economico, delle multinazionali ecc.. a nostro avviso sono frutto di colonialismo culturale perche mai economisti americani o cinesi sosterranno tesi protezioniste in quanto in contrasto con i loro interessi. Occorre analizzare, perciò, le singole situazioni e non lasciarsi tentare dall’adottare schemi universalmente validi. Ad esempio permettere a una società cinese di comprare un grande hotel al centro di Milano, restaurarlo e alla riapertura mettere fuori tutti i dipendenti italiani e assumere manodopera cinese fatta affluire dalla madre patria, è pura stupidità. Se gli stranieri creano un impresa, sull’esempio di molti paesi, occorre obbligarli a dare lavoro anche a un certo numero di italiani (una buona regola è che almeno il 50% siano lavoratori locali, esiste in molti paesi come gli Usa, Panama, Brasile ecc.).

 

IL MERCATO DEL LAVORO

La questione sembra aperta, ma in realtà è chiusa, soprattutto dopo le ondate emigratorie mediorientali e africane iniziate nel 2014. Infatti l’unico paese ancora disposto ad accettare nuovi immigrati è l’Italia. l’Europa a chiacchiere si è mostrata disponibile, ma nella realtà ha accettato poche migliaia di persone (niente rispetto alle grandi masse di persone che sono arrivate in Italia e in Grecia). Ad ogni modo né la Grecia, né l’Italia, vista la comatosa situazione economica in cui si trovano, sono da prendere da esempio.

Nessun paese è disposto ad aprire le proprie frontiere all’immigrazione se non ha posti di lavoro da offrire o ha un alto tasso di disoccupazione. In altre parole, nessuno accetta nuovi lavoratori se ha già molti disoccupati sul proprio territorio. Può sembrare crudele ma ognuno deve pensare ai suoi poveri e ai suoi disoccupati.

 

I rifugiati politici. Il caso è diverso se si tratta di profughi che scappano da guerre, rivoluzioni ecc.. In questi casi la cosa migliore è predisporre dei campi profughi internazionali in paesi limitrofi, dove accoglierli e rifocillarli, in attesa che la situazione politica si stabilizzi e tornino in patria. Non si prendono in mare dai 150.000 ai 200.000 immigrati all’anno, come sta facendo l’Italia negli ultimi anni, e ce li si porta a casa, oltre i costi, i problemi che possono dare sono tantissimi ed enormi. Ci torneremo nel capitolo sull’immigrazione.

 

IL MERCATO delle IMPRESE

L’opinione prevalente considera positivamente il fatto che imprese straniere vogliono stabilirsi sul proprio territorio o che multinazionali desiderino aprire filiali, in quanto si ritiene che creino posti di lavoro e portino ricchezza. Anche l’acquisizione di imprese nazionali da parte di gruppi finanziari stranieri è ancora vista in luce positiva, in quanto gli economisti attuali sono convinti che bisogna superare i biechi nazionalismi e andare verso un’economia globale. Attualmente solo pochi Stati, infatti, chiudono le frontiere alle multinazionali o impediscono che aziende nazionali finiscano nelle mani di capitalisti stranieri.

Questo fino a qualche anno fa, poi si sono verificati dei casi che hanno cominciato a far vacillare questi certezze. Vediamoli insieme.

Ad aprile 2011 i servizi segreti italiani hanno lanciato l’allarme: certe società cinesi, acquistavano in Europa affermate aziende al solo scopo di impossessarsi del loro know-how, spesso sofisticatissimo, e del loro mercato, cioè del “pacchetto clienti”, ma poi col tempo portavano all’azienda alla chiusura. In parole povere, la facevano fallire col preciso scopo di spostare la produzione nel loro paese, dove non solo la mano d’opera, ma tutti gli altri costi erano sensibilmente inferiori. In questo modo lasciavano a casa i lavoratori europei e si impossessavano del settore. Si tratta di un comportamento fortemente scorretto, per questo motivo una commissione governativa dovrebbe sempre valutare l’affidabilità degli acquirenti, onde evitare spiacevoli sorprese.

 

A marzo del 2011, il governo italiano davanti all’ennesima acquisizione da parte di una multinazionale straniera, in questo caso era finita in mano ai francesi una delle più quotate aziende italiane: la Parmalat, è stato costretto a varare delle misure anti scalata (misure che da anni esistono già in Francia e in altri paesi europei).

In effetti, tutti predicano bene, ma poi razzolano male. Tutti sono per il libero scambio e per l’apertura, quando si tratta degli altri, ma poi in casa propria, attuano “sofisticate” forme di protezionismo. Come dire la teoria è una cosa, la realtà un’altra, infatti misure protezionistiche, spesso camuffate, come cordate nazionaliste per evitare scalate di multinazionali estere, continuano ad esistere un po’ in tutti i paesi, persino negli Stati Uniti. Abbiamo visto agli inizi del 2000 le difficoltà che hanno incontrato le imprese italiane, come l’ENEL quando ha cercato di comprare un’azienda francese in campo energetico. Ma anche il caso della Fiat, che anni fa cercò di comprare l’Opel, trovando la strada sbarrata dal governo tedesco, deve indurre a riflettere.

 

La reciprocità. Anche della regola della reciprocità, cioè essi comprano da noi e noi compriamo da loro, addotta dagli economisti per giustificare il libero scambio, è lecito dubitare. È una posizione che non tiene conto di un fattore importantissimo: del potenziale economico, cioè della ”quantità” di capitali disponibili nei singoli paesi. In effetti i partner, che si misurano sui mercati mondiali non sono di eguale “potenza” economica, ma spesso dei bambini devono affrontare dei giganti. Nessuno si sognerebbe di far combattere sul ring un pugile leggero contro un peso massimo, eppure con la globalizzazione succede proprio questo.

Per far capire meglio le proporzioni delle forze in campo, prendiamo come esempio due stati europei: la Francia e l’Albania. Secondo la teoria del libero mercato gli imprenditori francesi dovrebbero avere mano libera per comprare aziende o banche albanesi e gli albanesi quelle francesi. Ma che competizione ci può essere tra un piccolo paese arretrato, con pochi capitali e con poco più di 3 milioni di abitanti, e una potenza industriale come la Francia?

Il flusso sarebbe in una sola direzione: non solo i francesi venderebbero loro ogni tipo di merci (sempre che questi ultimi abbiano i soldi per pagarle), ma ogni 100 società che essi comprerebbero nel piccolo paese balcanico, si o no gli albanesi riuscirebbero a comprarne una sola nel paese transalpino.

 

La competizione è leale quando si tratta di due avversari di pari forza, non quando la lotta è tra un gigante e un bambino. Quindi il libero mercato non tiene presente una realtà innegabile: i contendenti non sono uguali e perciò una competizione non solo non sarebbe alla pari, ma ingiusta. Una cosa, infatti, è che si trovino a confronto due nazioni forti ed fortemente sviluppate, come la Francia e la Germania ad esempio, e una cosa che si trovino a confrontarsi una superpotenza, come gli USA ed un piccolo paese, come il Portogallo. Nel primo caso se alcuni imprenditori francesi comprano delle aziende tedesche, ci saranno dei tedeschi che compreranno aziende francesi, con uno scambio equo. Non sarebbe lo stesso tra Usa e Portogallo, gli americani potrebbero fare ampio shopping nel piccolo paese iberico, tra l’altro in forte crisi, mentre i capitalisti portoghesi potrebbero al massimo mettere a frutto qualche buon colpo.

 

È anche importante distinguere. Se si tratta di una multinazionale che vuole aprire una filiale nel proprio paese, spostando qui una parte della produzione, è una cosa positiva perché crea occupazione e fa girare l’economia. Allo stesso modo un imprenditore che vuole avviare una nuova attività economica è da incoraggiare (però bisogna imporle di assumere almeno il 48% di mano d’opera locale).

La cosa è diversa se si tratta di capitalisti stranieri che vogliono comprare aziende nazionali, specialmente se si tratta di veri gioielli di tecnologia. In questo caso governo e sindacati devono valutare attentamente il piano industriale presentato dal gruppo acquirente perché ci si può trovare davanti a spiacevoli sorprese, come nei casi precedentemente citati. I pericoli in questi casi possono essere tanti e il risultato può essere la perdita di un’industria, del suo indotto, delle conoscenze tecniche, della manovalanza specializzata ecc., un vera disgrazia per il paese. Davanti all’imperialismo dimostrato da alcuni paesi, come abbiamo detto, la prudenza è d’obbligo e i governi devono valutare bene qualsiasi tentativo di scalata da parte di multinazionali estere, per non fare finire le aziende nazionali nelle mani sbagliate.

Anche nel caso le cose vanno bene, cioè le aziende capitano in “buone” mani non è saggio far finire le maggiori aziende nazionali in mani straniere perché in questo caso si finisce per diventare una colonia economica dei grandi paesi industriali, cioè dei colossi. Senza contare che i profitti di queste aziende se ne vanno all’estero e in caso di forte crisi del settore, saranno le prime ad essere chiuse.

 

Le precauzioni. La conclusione è che davanti ai tentativi di capitalisti stranieri di comprare aziende nazionali bisogna valutare attentamente le cose e a farlo deve essere una commissione composta anche da rappresentanti sindacali che deve esaminare la proposta di acquisto e non deve concedere parere positivo se non sono garantiti i posti di lavoro e la produzione resta sul luogo.

Altre indicazioni suggerite dall’esperienza sono:

Controllo delle retribuzioni. Non bisogna permettere alle multinazionali di pagare in modo inadeguato i dipendenti (o addirittura in nero). In questo caso, vengono a predare le risorse, non a portare ricchezza. Permettere, ad es., alla Carrefour di aprire i suoi supermercati in Italia pagando meno di 500 euro i dipendenti sul part time, significa essere stupidi.

In secondo luogo, bisogna obbligare queste imprese a tenere la sede amministrativa in Italia e a pagare le imposte nel paese ospitante e non porre la residenza in un altro paese della comunità europea, come talvolta succede.

In terzo luogo, non bisogna permettere loro di impiegare principalmente manodopera straniera. In effetti non deve succedere, come nel Nord Italia che i cinesi comprano un grande albergo, buttano fuori tutti i dipendenti italiani e al loro posto assumono connazionali o extracomunitari che si accontentano di paghe da fame. A nostro avviso, bisognerebbe addirittura obbligarli ad avere nel proprio organico almeno il 50% di italiani. Se vengono da noi solo per impiegare lavoratori stranieri, è meglio che se ne stiano nel loro paese. Se pagano bene e rispettano i contratti sindacali, troveranno tantissimi italiani disposti a lavorare per loro.

 

IL MERCATO DEI BENI

Le tesi dei sostenitori del libero scambio, anche in questo caso, prevalgono nettamente sui “protezionisti”. Tutto merito delle scuole economiche americane, da decenni schierate su posizioni liberiste. La cosa non deve meravigliare molto, una superpotenza economica come gli USA non potrebbe mai sostenere tesi che spingano i “piccoli” a proteggersi dai “grandi”. Ma la questione è, a nostro avviso, tutt’altro che chiusa.

Vediamo prima le ragioni dei fautori del libero scambio, che è la politica economica contraria all’adozione di qualsiasi restrizione allo scambio internazionale di merci, quali i dazi doganali, le quote o il controllo dei cambi, poi quelle dei protezionisti, che è sbagliato chiamarli così perché nessuno vuole più un ritorno all’autarchia di Mussoliniana memoria, all’isolazionismo. In effetti il protezionismo, nella sua interpretazione più estremista è morto, perciò sarebbe meglio chiamarli “restrizionisti” in quanto sostenitori di “meccanismi di regolazione” delle importazioni al fine di attuare forme di difesa dall’invasione dei prodotti dei paesi emergenti, Cina in testa e dalla concorrenza spesso sleale di questi ultimi.

In secondo luogo, nessuno è contrario ad imporre controlli sulla qualità, per evitare di fare entrare prodotti nocivi per la salute, cibi scaduti o avariati, merci contraffatte. Bisogna anche bloccare manufatti di pessima qualità, che dopo qualche settimana di uso sarebbero gettati via, facendoci spendere molti soldi per un corretto smaltimento.

 

La storia economica. Il primo a sostenere apertamente la politica del libero scambio fu l’economista scozzese Adam Smith, le cui teorie contribuirono al successivo sviluppo della politica commerciale in Gran Bretagna. Smith rifiutava decisamente le conclusioni protezionistiche del pensiero mercantilista e sosteneva che la regolamentazione statale del commercio riduceva la ricchezza delle nazioni, in quanto impediva loro di comprare la quantità massima di prodotti, al minor prezzo possibile. Con il libero scambio, invece, ogni nazione poteva aumentare la propria ricchezza esportando i beni prodotti in maniera più economica e importando prodotti fabbricati altrove a basso costo.

David Ricardo ampliò e perfezionò l’analisi di Smith, mentre John Stuart Mill dimostrò che i benefici del libero scambio dipendevano dalla forza della domanda reciproca di importazioni ed esportazioni. Quanto più forte è la domanda delle esportazioni di un paese rispetto alla sua domanda di importazioni, tanto maggiore è il guadagno percepibile dal libero scambio.

 

La teoria del vantaggio comparato. In tempi più recenti sono state elaborate diverse teorie per dimostrare che la mancanza di dazi e di restrizioni al commercio internazionale porta enormi benefici a tutti. La più recente è la teoria del vantaggio comparato, che può essere riassunta in poche parole: “Se un paese si specializza nella produzione del bene per il quale gode di un vantaggio comparato e intraprende scambi con gli altri paesi, la produzione mondiale di tutti i beni aumenta.” Krugman (2008) premio Nobel per l’economia.

I paesi, secondo i sostenitori di questa teoria, si specializzano nella produzione ed esportazione di beni che richiedono quantità relativamente ampie delle risorse che essi possiedono in abbondanza, mentre importano beni che richiedono grandi quantità di risorse che non possiedono. Questa teoria si basa sul presupposto che quando un paese apre le frontiere e diventa importatore, i consumatori interni traggono un beneficio in quanto pagheranno certi beni a minor prezzo, mentre i produttori interni subiscono un danno. Il commercio internazionale, però, fa aumentare il benessere totale del paese, dal momento che i guadagni dei compratori sono superiori alle perdite dei venditori.

 

Gli altri vantaggi del libero scambio:

    1 – Maggiore varietà di beni. Il libero scambio offre ai consumatori di tutti paesi la possibilità di scegliere tra una gamma più ampia di beni. Ad esempio, si può scegliere tra tantissimi tipi di birra, perché ogni nazione ha le sue fabbriche.

2 – Minori costi, grazie all’economia di scala. Allargando il mercato fino a diventare mondiale, alcuni beni possono essere prodotti in grandi quantità, quindi a basso costo. Al contrario un’azienda che opera in un paese piccolo non può avvantaggiarsi delle economie di scala. Si pensi agli enormi spese che comporta la produzione di un film d’azione, che possono essere recuperate soltanto distribuendolo in tutto il mondo.

3 – Aumento della concorrenza. Aprire le frontiere significa incentivare la concorrenza, che aguzza l’ingegno e abbassa i prezzi. Al contrario, un’azienda che opera in un mercato interno protetto quasi sempre è in grado di imporre prezzi superiori a quelli di concorrenza perfetta e non sempre rinnova in modo adeguato i prodotti.

4 – Diffusione del progresso tecnologico. Lo scambio di beni e la concorrenza internazionale ha l’effetto benefico di favorire la diffusione di nuove tecnologie. Ad esempio, col tempo anche i paesi sottosviluppati hanno cominciato ad adottare moderni sistemi di coltivazioni, migliorando la produttività. La concorrenza internazionale spinge tutti a stare al passo con i tempi, in quanto produrre con una tecnologia superata significa uscire dal mercato.

Facciamo notare che pur trattandosi di vantaggi innegabili, non si perdono se si introducono dei dazi abbastanza contenuti, ad esempio una tassa del 20% sulle importazioni.

 

LE TESI dei FAUTORI delle RESTRIZIONI

Gli argomenti a favore di misure miranti a proteggere i mercati interni o almeno a controllare il flusso di beni che viene dall’estero, sono altrettanto numerosi e ben fondati. Iniziamo col dire, però, che le tesi più estremiste, come abbiamo accennato, cioè l’autarchia o la chiusura quasi totale all’esterno, è praticata da pochissimi stati e non ha più sostenitori. Molte più fondate sono le teorie protezionistiche favorevoli a dazi moderati o a restrizioni per limitare gli effetti negativi di “importazioni senza regole” e contenere in qualche modo “l’invasione” di merci dai paesi che praticano la concorrenza sleale. Ma andiamo con ordine, vediamo per prima le motivazione dei fautori delle restrizioni.

I motivi che possono spingere a misure protezionistiche sono:

   1 – L’occupazione. Gli oppositori del libero scambio sostengono soprattutto che la concorrenza internazionale distrugge posti di lavoro. Nel caso che si cominci ad importare acciaio, è vero che il prezzo interno cala, ma si riduce nello stesso tempo la quantità di acciaio prodotta, facendo calare l’occupazione nel proprio paese. Al contrario riducendo le importazioni, si stimola la domanda di merci sostitutive interne, con l’effetto di espandere la produzione nazionale.

A questa obiezione, i sostenitori del libero scambio ribattono che anche se si perdono dei posti di lavoro, se ne creano di nuovi in altri settori. Ad es. se si acquista acciaio da altri paesi, questi ultimi avranno maggiori risorse per acquistare nostri prodotti. In effetti, secondo questa posizione, i posti che si perdono in un settore vengono recuperati in altri.

 

È una posizione giusta, ma non tiene presente di due cose:

  1. a) Non tutti i paesi hanno tecnologie avanzate per poter recuperare in altri campi. In altre parole, si possono recuperare i posti persi in un settore, se si hanno altri settori in cui si è in grado di essere competitivi. Se si tratta, invece, di un paese in via di sviluppo incapace di produrre beni tecnologicamente avanzati, non recupera niente. In effetti la teoria del vantaggio comparato è valida quando si tratta di paesi industrializzati, avanzati, come Germania, Francia, Usa, ma se perde un’industria importante un paese tecnologicamente arretrato come la Bulgaria, non riuscirà a sostituirla con altre esportazioni.

 

  1. b) È un discorso valido teoricamente, ma nella realtà le cose stanno diversamente. Quando si va a cercare merci o prodotti in cui specializzarsi da scambiare con gli altri, si scopre che tutti i settori sono “intasati”, cioè che esistono già altri paesi che li producano. Il premio Nobel Samuelson (1993) scrive: “I paesi devono prestare attenzione agli eventi che accadono all’estero. Se le politiche di un paese non sono al passo con quelle dei suoi partner commerciali, la situazione può precipitare, provocando recessione, interazione o sgravi squilibri commerciali“. Come dire più importazioni portano prima crisi, poi recessione.

 

    2 – La sicurezza nazionale. La fornitura di beni stranieri potrebbero essere interrotta a causa di conflitti internazionali o di altre cause, per questo motivo è auspicabile conservare un minimo di strutture industriali. La prudenza impone di non lasciare nessuna produzione perché la situazione internazionale potrebbe mutare da un giorno all’altro. In effetti è giusto evitare la dipendenza da fonti straniere per la fornitura di materiali essenziali o di prodotti finiti che potrebbero venire negati in tempo di guerra o di crisi.

Il limite di questa posizione è costituito dalla difficoltà di individuare le industrie indispensabili per la sicurezza nazionale. Le imprese hanno un forte incentivo ad esagerare il proprio ruolo nella difesa nazionale al fine di ottenere protezione dalla concorrenza estera.

Il problema è superabile sollecitando il parere di esperti indipendenti. In secondo luogo, non è così difficile come ci vogliono far credere, ad es. non ci vuole molto a rendersi conto che il settore dell’energia è vitale per una nazione. Se un paese, ad es., importa il 50% dall’energia attraverso elettrodotti si potrebbe ritrovare al buio se la situazione politica internazionale dovesse mutare.

I sostenitori di restrizioni al commercio internazionale rispondono che se in passato si è abusato di questa motivazione, non vuol dire, però, che sia campata in aria. Il problema della sicurezza nazionale esiste ed è innegabile. Non solo, ma per tutelarsi da eventuali shock negativi internazionali ogni governo deve cercare il più possibile di diversificare gli approvvigionamenti. È un errore, ad esempio, basarsi solo sulle forniture russe per il gas, mentre è bene dotarsi di rigassificatori in modo da importare questa preziosa materia prima anche dall’Africa e dal sud America.

Il punto debole di questa posizione è che oggi, tranne che per certe materie prime, l’offerta di merci è molto ampia e diversificata. In effetti ciò che compro oggi dalla Cina, domani potrei comprarlo dal Brasile.

    3 – Protezione delle industrie nascenti. Uno degli argomenti più antichi a favore della protezione è quello dell”industria nascente, secondo il quale, allorché la concorrenza straniera si riduce o viene eliminata da barriere all’importazione, le industrie interne hanno modo di affermarsi e svilupparsi. È un argomento spesso sollevato dai paesi in via di sviluppo. In effetti, se i nuovi settori industriali non sono protetti per un certo periodo e sono subito esposti alla concorrenza internazionale, né si provoca la loro la crisi prematura. Anche il Giappone all’inizio protesse la sua industria automobilistica e quella elettronica e si aprì all’esterno solo quando fu in grado di fronteggiare la concorrenza internazionale.

Gli economisti liberisti si dimostrano scettici di fronte a queste richieste. La ragione fondamentale è che, a loro parere, la protezione dell’industria nascente è difficile da mettere in pratica. La difficoltà consiste nello stabilire quali settori sono potenzialmente redditizi e in futuro in grado di reggere la concorrenza internazionale.

In altre parole resta piuttosto difficile stabilire a priori quali industrie avranno successo e vale la pena di proteggere e quali no. Non solo, ma obiettano che di solito tali decisioni sono fortemente influenzate da clientelismo (ad esempio si protegge il settore automobilistico, solo perché si tratta di imprenditori legati al partito al governo). Questo problema è risolvibile nominando una commissione di esperti, che potrebbero individuare le industrie vitali per il paese.

In secondo luogo, nella maggior parte dei casi i provvedimenti temporali tendono a diventare permanenti, se chi ne beneficia è politicamente potente.

Lo scetticismo dei liberisti nasce anche da un altro motivo. Se un’industria nascente è incapace di competere con la concorrenza straniera, non c’è ragione per credere che il settore possa diventare redditizio nel lungo periodo. Se così fosse i proprietari delle imprese del settore sarebbero ben lieti di incorrere in perdite temporanee pur di ottenere profitti futuri. Secondo essi non è necessaria alcuna protezione affinché un settore cresca e a sostegno della loro tesi riportano l’esempio di aziende che hanno sopportato perdite per anni nella speranza di crescere e di diventare redditizie in futuro.

È un’argomentazione valida fino a un certo punto, perche quasi sempre le industrie nascenti partono con scarsi capitali, semmai con contributi dello Stato e prestiti delle banche, quindi non hanno abbastanza denaro per sostenere il mercato in perdita per alcuni anni. In secondo luogo, un’industria nascente, a meno che non è sostenuta da una multinazionale o da grossi capitali, i primi anni ha grossi problemi di sopravvivenza. Deve restituire i soldi dei mutui, ha i costi di avvio, ha bisogno di tempo per organizzare una rete di distribuzione e per conquistare una fetta di mercato ecc.. Se la non si aiuta, semplicemente morirà.

 

Conclusioni. La discussione posta in questi termini propende sicuramente a favore del libero scambio, ma col tempo le cose hanno cominciato a cambiare, anzi è cambiato il mercato internazionale. In effetti fino agli ultimi due decenni del XX secolo scorso il commercio internazionale era dominato da Usa e dai paesi europei, poi sono incominciati ad affacciarsi i paesi emergenti, prima il Giappone, ma quello che ha cambiato di più le cose sono stati Cina e le “tigri” asiatiche. Si è cominciato a giocare sporco, è apparso un fenomeno chiamato concorrenza sleale. Gli economisti più intelligenti se ne sono accorti, ma la stragrande maggioranza è rimasta ferma alle tesi liberiste. Tutto ciò ha cambiato tutto, lo vedremo nel prossimo paragrafo.

 

LA CONCORRENZA SLEALE

Gli studiosi più attenti si resi conto di una inconfutabile verità: oggi non esiste più il free market (il libero mercato), ma il wild market, ossia il mercato internazionale è diventato una sorte di selvaggio west, un oceano dove il pesce grande mangia quello piccolo e che chi fa il gioco sporco “fa i soldi”. In effetti, a differenza delle parvenze, non tutti rispettano le regole. Il risultato è stato che il libero scambio non porta più vantaggi a tutti e che i piccoli paesi, soprattutto quelli credono ancora in certi valori, vengono schiacciati.

 

Non solo, ma è comparso un fenomeno chiamato imperialismo economico e allora gli “squali”, cioè le multinazionali e i grandi capitali, si sono sparsi in tutto il mondo per cercare i paesi più “deboli”, dove acquistare immobili e terreni o materie prime da lottizzare ecc.. Oggi un paese non si conquista più con i carri armati, oggi si comprano le industrie più avanzate, ci si impossessa del know-how, si compra il petrolio, le materie prime, gli immobili ecc..

Nell’industria la regola è diventata una sola: produrre a prezzi stracciati, la Cina ha fatto scuola, non importa se si utilizzano operai che lavorano 15 ore al giorno, con paghe da fame, non importa se non si garantisce alcuna libertà sindacale, non importa se si inquina l’aria, si riempie i fiumi di liquami i tossici o si contraffanno prodotti famosi. Se esistesse un paese del terzo mondo dove fosse permesso ancora lo schiavismo, come ai tempi dell’antica Roma, ecco gli industriali pronti a spostare là le loro fabbriche e paesi europei e nord americani a comprare i loro prodotti, che gronderebbero del sudore di questi nuovi schiavi.

 

Ne abbiamo accennato alcuni, ma i motivi di concorrenza sleale possono essere molti: tutela dell’ambiente (non depurare le acque o filtrare i fumi nell’atmosfera abbassa notevolmente i costi), manipolazione del cambio (tenere basso il valore della propria moneta o svalutare significa giocare sporco), dare paghe da fame ai propri operai, utilizzare manodopera infantile, contraffare i marchi di aziende famose ecc.. Se per costruire palloni di cuoio per il calcio utilizzo dei bambini, li pago pochissimo e li faccio lavorare 12 ore al giorno in uno scantinato, abbatto i costi e faccio chiudere chi utilizza persone adulte e rispetta tutte le regole di sicurezza. In effetti, così come è oggi il mercato vengono premiati i disonesti, gli imprenditori sfruttatori, i mercanti di schiavi e tutti coloro che inquinano o non rispettano le regole sui copyright.

 

In ultimo, vengono le sovvenzioni. Se un paese, ad esempio, concede sussidi all’industria dell’acciaio, abbatte sensibilmente i costi di produzione facendo concorrenza sleale agli altri. A dicembre del 1010 la Cina è stata accusata di abbassare il costo delle proprie ceramiche mediante aiuti agli esportatori. Chiaramente si tratta di un comportamento scorretto.

A questa argomentazione i fautori del libero scambio controbattono: “Sussidiare le acciaierie potrà essere un pessimo provvedimento di politica economica, ma sono i contribuenti di quel paese che ne sostengono il peso. I consumatori possono solo trarre beneficio dall’opportunità di acquistare acciaio a prezzo sussidiato”, Mankiw (2007).

 

Gli studiosi più attenti non ritengono valida questa motivazione per varie ragioni

Per prima cosa, perché a volte non si tratta di libero scambio, ma semplicemente di dumping. In altre parole i produttori dei paesi emergenti, Cina in testa, abbassano i prezzi fino al punto che la concorrenza non può sopportare. Una volta rimasti solo sul mercato impongono i prezzi che vogliono. In altre parole, il libero scambio in questi casi è vantaggioso solo sul breve periodo, non sul lungo, in quanto dopo pochi anni si avrà il duplice effetto: non solo si saranno chiuse le industrie nazionali operanti nel settore, ma il prezzo di quel prodotto tornerà al livello di prima.

 

In secondo luogo, è vero che sono i cittadini del paese esportatore a pagare le tasse per dare i sussidi alle aziende, ma sono grossi problemi anche per gli operai del paese importatore che restano a casa. Se la stessa cosa succede in più settori, ecco creata la premessa per la recessione e per l’inflazione (dato che si sarà costretti a svalutare la moneta nazionale).

 

In terzo luogo, si tratta di un comportamento scorretto ai danni dei paesi poveri. Chi può dare, infatti, generosi sussidi alle industrie? Solo i paesi forti economicamente, quindi è un modo per schiacciare la concorrenza e imporre i propri prodotti. È una forma di imperialismo a danni dei paesi più deboli o con un grosso deficit del bilancio statale.

 

In tutto il mondo si continua ad essere protezionisti. È uno degli argomenti più validi a favore delle restrizioni. Nonostante tutti si dichiarino per il libero scambio, in pratica ben pochi paesi adottano questa politica. In effetti, sin dalla seconda guerra mondiale quando le economie prosperano e i livelli di disoccupazione sono bassi, tutti i paesi si dichiarano favorevoli al libero scambio e fanno dei passi avanti di apertura o approvano misure per aprire al commercio internazionale.

Le cose cambiano completamente in tempi di recessione, tutti adoperano forme di protezionismo, facendo tutto il possibile per non farle sembrare tali. In effetti, la maggior parte dei paesi si comporta in modo molto ipocrita. In teoria continua a sostenere il libero scambio, ma di fatto attua misure protezionistiche dirette a tutelare l’interesse nazionale (anche sotto la pressione di imprenditori o di organizzazioni sindacali). Un esempio per tutti: il presidente Obama nel 2009 ha raddoppiato le tasse sulle importazioni delle acque minerali europee. Ciò è significato, che tranne le classi agiate, gli americani non hanno più potuto bere acque minerali italiane. È successo negli Stati Uniti, i più accesi fautori del libero scambio!

“La recessione mondiale sta avendo un impatto devastante sul commercio mondiale – è un articolo della Repubblica del 15/6/2009 – a causa delle tentazioni protezionistiche che sono emerse un po’ in tutto il mondo. L’allarme è stato lanciato sia dal Wto sia dalla World Bank: dall’ottobre 2008 si sono registrati 89 misure di restrizione del commercio in vari paesi e 23 solo da quando, all’inizio di aprile, il paesi del G20 hanno ribadito il loro impegno al libero commercio.” Come dire tutti sono per il libero scambio, ma soltanto quando si tratta degli altri.

 

ALTRI PUNTI DEBOLI

della teoria del vantaggio comparato

    Le ragioni su esposte non sono le uniche, ce ne sono anche altre che spingono a dubitare che il libero scambio porti vantaggi per tutti. Essi sono:

 

    1 – Perché non tiene conto dell’effetto del moltiplicatore. Nel 2004 il governatore dell’Indiana (stato degli USA), non tenendo conto del consiglio dell’economista Mankiw, cancellò un contratto da $ 15 milioni con imprese indiane incaricate di registrare ed elaborare le richieste di sussidi di disoccupazione dei residenti di quello stato (in pratica il lavoro veniva svolto in India). Il contratto fu, poi, affidato una società nazionale, al costo di $ 23 milioni, cioè con un aumento del 53%.

Uno spreco, secondo lo stesso economista in quanto lo Stato americano avrebbe potuto destinare quei soldi a scuole, ospedali, pubblica sicurezza ecc.. Un ragionamento giusto, che non tiene conto di un fattore importantissimo. Assegnando il lavoro a un’azienda nazionale si diede lavoro a migliaia di americani, che comprarono generi alimentari, mobili, computer, televisori ecc. ecc. fecero turismo e la sera si andarono a bere una birra in un pub locale. In effetti, gli americani con i soldi guadagnati con quell’incarico stimolarono la domanda interna e misero in funzione un circuito virtuoso.

Se lo stato dell’Indiana, invece, avesse assegnato l’incarico a una società in India, avrebbe sì risparmiato, ma quei soldi sarebbero andati ai dipendenti della società indiana che avrebbero speso quei soldi in India, pagato qui le tasse e sarebbero tornati negli USA solo in piccolissima parte, con maggiori esportazioni verso quel paese. In effetti, la teoria del vantaggio comparato, si concentra soprattutto sui soldi che si risparmiano importando quel bene a minor prezzo dall’estero, ma non considera che i soldi spesi in patria alimentano l’indotto e che ogni industria che lavora, dà lavoro ad altre. In effetti, se la Fiat costruisce le auto in Italia, dà lavoro anche a quelli che costruiscono batterie per auto, sediolini, gomme, accessori ecc., cioè alimenta un ampio indotto.

 

È vero, se quei soldi fossero stati spesi nei servizi negli Usa, ad esempio per rifare il manto stradale di alcune strade, avrebbero creati posti di lavoro in questi settori, però sarebbero stati sempre posti di lavoro finanziati con il denaro pubblico che non avrebbero contribuito alla bilancia dei pagamenti. Inoltre finiti i soldi, sarebbe finito il lavoro, invece le industrie danno lavoro in modo continuo e autonomo, cioè senza finanziamenti statali (anzi pagano le tasse).

In terzo luogo, l’effetto del moltiplicatore, è molto più breve e limitato quando si tratta di servizi, mentre è sensibilmente più lungo e duraturo quando si tratta di aziende che producono merci, in quanto queste muovono un indotto notevolmente più vasto. I produttori hanno bisogno anche di materie prime, di prodotti agricoli, di servizi ecc., mentre le aziende del terziario utilizzano solo prodotti finiti, spesso comprati all’estero.

Paul Samuelson scrive: “Poiché in un’economia aperta una certa frazione di qualsiasi aumento del reddito si disperde verso le importazioni, il moltiplicatore di economia aperta è minore di quello di un sistema economico chiuso. La relazione esatta è: moltiplicatore = 1/ PMR + PMm. Dove PMR è la propensione marginale al risparmio e PMm è la propensione marginale all’importazione. In effetti più aumentano le importazioni e più si riduce il moltiplicatore di un’economia”.

 

    2 – Perché la si confronta solo con la tesi protezionista. La teoria del libero scambio risulta sempre vincente, perché gli economisti la confrontano solo con quella opposta, cioè con l’isolazionismo o con l’autarchia. In effetti, fanno lo stesso errore che fanno i farmacisti quando valutano un nuovo farmaco e lo paragonano a un farmaco placebo. È chiaro che prendere un farmaco con qualche efficacia è sempre meglio che non prendere niente. Il problema è che noi, quasi sempre, disponiamo già di altri farmaci per curare una determinata malattia. Per questo motivo gli effetti di un nuovo farmaco dovrebbero essere paragonati con quelli dei farmaci in uso, per vedere se rispetto a questi hanno dei vantaggi, ad esempio se hanno meno effetti collaterali. Si vuol sapere se è più conveniente passare a quelli nuovi o continuare con i vecchi, non se è un certo farmaco ha qualche utilità.

Allo stesso modo, i fautori del libero scambio risultano sempre vincenti perché confrontano le loro tesi con quelle opposte, cioè quelle protezionistiche (o addirittura autarchiche), ma non fanno mai un confronto con situazioni intermedie, come dazi moderati. Ad esempio, mettiamo il caso che si decide di introdurre un dazio del 20% su tutte le merci importate. Si vedrà subito che questa soluzione è molto più vantaggiosa del libero scambio.

 

Dazi moderati sulle importazioni. È una soluzione, a torto, non presa in considerazione degli economisti, perché confrontata con quella della totale apertura dei mercati all’esterno, presenta notevoli vantaggi. Vediamoli insieme.

– Costituiscono una cospicua entrata per lo Stato, che in questo modo può pensare di abbassare le tasse e ridurre i costi di produzione. Le merci nazionali, in questo modo, diventerebbero più competitive sui mercati internazionali.

– Dato che le merci importate costerebbero il 20% in più, per i produttori nazionali si creerebbe una piccola nicchia di mercato, che in caso di crisi permetterebbe loro di sopravvivere fino a quando non riescono ad essere più competitivi.

– Il dazio non è così alto da scoraggiare le importazioni e i consumatori pagherebbero solo un tantino in più i prodotti, senza essere danneggiati molto. In effetti, si comprerebbe all’estero solo i prodotti in cui non si è competitivi o che non si è grado di produrre.

– L’occupazione non ne sentirebbe molto. In pratica si continuerebbe a importare in tutti i settori in cui non si possiede un’industria nazionale capace di competere.

– Si ridurrebbe l’inquinamento. Una riduzione del libero scambio mondiale, infatti, comporterebbe meno aerei, navi, treni e tir per trasportare in tutto il mondo le merci, ad esempio prodotte in Cina.

 

    4 – Perché si può creare un forte disavanzo commerciale. I sostenitori della teoria del vantaggio comparato non tengono conto di un altro fatto importantissimo: maggiori importazioni a lungo andare possono provocare un forte disavanzo commerciale, che a sua volta porta a un deprezzamento delle propria valuta che poi si trasforma in inflazione. È un fatto evidenziato anche Olivier Blanchard (2009) sul suo volume “Macroeconomia”: “L’aumento della domanda ricade sia sui beni nazionali che esteri. Di conseguenza quando la produzione aumenta, l’effetto sulla domanda di beni nazionali è più piccolo di quello che si avrebbe in economia chiusa. Il valore del moltiplicatore è inferiore.”

Nello stesso paragrafo riporta l’esempio del Belgio. “Quando la domanda di beni in Belgio aumenta, gran parte dell’incremento della domanda si riflette in un aumento delle importazioni, invece che in un aumento della domanda di beni nazionali. È quindi probabile che un incremento della spesa pubblica in Belgio generi un notevole peggioramento della bilancia commerciale”. In altre parole, in queste condizioni una manovra fiscale, come un aumento della spesa pubblica al fine di favorire la crescita economica, diventa svantaggiosa per il paese in quanto causerebbe un deterioramento della bilancia commerciale piuttosto che un rilancio dell’economica. In conclusione fino a quanto maggiori importazioni sono compensate da maggiori esportazioni, non ci sono problemi, ma quando la bilancia commerciale va in deficit, si possono creare le premesse per un deprezzamento della valuta.

 

Ci sono gli estremi per sospettare che la teoria del vantaggio comparato sia frutto di una forma di colonialismo culturale. Gli Stati Uniti, la Cina, le superpotenze industriali insomma, non potrebbero mai sostenere teorie diverse dal libero scambio, perché li avvantaggia enormemente. In questo modo i piccoli paesi rimarranno sempre piccoli paesi e avranno serie difficoltà a sviluppare un’industria propria e far concorrenza alle multinazionali e ai colossi mondiali.

IL LIBERO SCAMBIO EQUO E LEALE

La discussione tra i sostenitori delle due teorie, libero scambio e protezionismo, tuttora continua. Tuttavia negli ultimi tempi si sta facendo strada un’ulteriore posizione favorevole sì al libero scambio, purché impostato su principi lealtà e di equità, cioè sempre che avvenga senza scorrettezze o trucchi. In effetti, si è capito che bisogna ristabilire “l’antico free trade”.

La differenza è enorme. Ad esempio, se un paese permette che sul suo territorio si producono alla luce del sole capi di vestiario contraffatti, su cui spesso attaccano l’etichetta “made in Italy”, si tratta di concorrenza sleale, non di libero scambio. La stessa cosa succede se un paese manipola il cambio come fa la Cina tenendo artificiosamente basso il valore della propria moneta per esportare in tutto il mondo o se si usano prodotti tossici o materiali dannosi alla salute per costruire manufatti.

In conclusione, la teoria del vantaggio comparato è perfettamente valida, finché si tratta di scambi commerciali tra partner sullo stesso livello, come Francia e Germania o Spagna, e se nessuno “bara al gioco”, nel senso che non ricorre a forme di concorrenza sleale. In quest’ultime pagine del capitolo, perciò indicheremo tutte le regole che andrebbero seguite per impostare il libero scambio in modo coretto e leale, cosicché il commercio internazionale possa portare realmente vantaggi a tutti e non solo alle grandi economie in espansione del pianeta.

 

LE REGOLE DEL LIBERO SCAMBIO LEALE

Il libero scambio, come ci insegnano gli economisti classici a partire da Ricardo, è una grande risorsa per il mondo intero, può essere una fonte di benessere e di sviluppo per tutti, sempre che “tutti rispettano le regole”. L’idea di abolire le frontiere, infatti, e favorire gli scambi tra le nazioni, favorendo la specializzazione, è una grande idea, ma il problema sta come viene realizzata. La mondializzazione dei mercati deve essere attuata su basi di giustizia e di equità.

 

Ecco le regole che bisognerebbe introdurre:

1 – Tutela dell’ambiente. Inquinare, avvelenare l’aria con i fumi o scaricare le acque sporche nei fiumi senza alcuna depurazione, deve essere considerata una forma di concorrenza sleale, sanzionabile dalla comunità mondiale. Non si pretende che da un giorno all’altro tutti i paesi, specialmente quelli poveri, debbano dotarsi di filtri e tecnologie moderne, ma che almeno ogni anno facciano dei progressi nella tutela dell’ambiente. Possiamo tollerare che non tutte le industrie in Cina siano dotate di moderne tecnologie per ridurre l’inquinamento, ma non si può tollerare che il loro governo non faccia niente, tenendo così bassi i costi di produzione.

Non solo, ma deve essere creato un organismo mondiale che controlli gli impianti e faccia rispettare queste norme. Per chi trasgredisce devono essere previste pesanti sanzioni.

 

2 – Tutela dei lavoratori. Pagare salari da fame (insufficienti per il sostentamento delle famiglie), non dare ai lavoratori l’assistenza medica e una copertura pensionistica, deve essere considerata una forma di concorrenza sleale. In particolare deve essere sancito l’obbligo al riposo settimanale dei lavoratori e stabilito il numero massimo di ore che essi devono fare a settimana (ad esempio nessuno può superare le 45 ore).

 

3 – Copyright e contraffazioni. Tutti i paesi devono impegnarsi a combattere attivamente le contraffazioni. Non si può copiare i prodotti degli altri, ma soprattutto deve essere severamente sanzionabile mettere etichette false sulle merci. A tal fine bisogna creare un organismo internazionale che controlli che nessun paese falsifichi i prodotti di un altro, né copi i marchi. I paesi che non rispettano queste regole devono essere esclusi dal commercio internazionale. Ecco che cosa ha dichiarato un imprenditore italiano R. Snaidero: “Abbiamo prodotti unici, eppure continuiamo a essere copiati e smerciati in modo dozzinale.”

 

    4 – Il tasso di cambio. Manipolare il tasso di cambio, tenendolo basso per favorire le proprie esportazioni, come fanno molti paesi a partire dalla Cina, deve essere ritenuta una forma di concorrenza sleale e condannato dalla comunità internazionale. Tutti i paesi che vogliono aderire al libero mercato mondiale devono lasciare oscillare liberamente sul mercato la propria valuta, senza far intervenire, palesemente o velatamente, le banche centrali. In altri termini deve essere bandito il cambio fisso o l’aggancio ad altre monete per tenere il cambio basso, ne deve essere permesso di svalutare al solo fine di rilanciare la propria economia. Nel 2012 il Giappone ha svalutato pesantemente la propria moneta per rilanciare la sua economia ed “esportare disoccupazione”.

 

5 – Le sovvenzioni. Sovvenzionare le proprie industrie, l’agricoltura o altri settori, al fine di abbassare i prezzi dei prodotti nazionali ed esportare, è un’altra forma di concorrenza sleale. Questa pratica è più diffusa nei paesi industrializzati. Ad esempio, gli Stati Uniti riescono tenere basso il prezzo del grano e ad esportare in tutto il mondo per gli aiuti che danno ai propri agricoltori. Lo stesso fa la Francia e spesso la comunità europea, in questi casi a soffrirne sono proprio i paesi più poveri del mondo. Cosa diversa, però, è l’intervento dello Stato per salvare le aziende in crisi. Devono essere, però, sempre misure provvisorie, in quanto poi le aziende devono reggersi con le proprie gambe.

 

6 – Commercio solidale. Il commercio mondiale ossia il libero mercato globale non deve basarsi unicamente su principi egoistici e logiche di profitto, ma deve prevedere anche dei meccanismi di aiuto ai paesi poveri più arretrati. A tal fine, si potrebbe, ad esempio, tassare il commercio mondiale con una piccola aliquota dello 1%, e le somme incassate dovrebbero essere utilizzate per aiutare i paesi arretrati in modo da eliminare fame e denutrizione e l’aberrazione di bambini costretti a rovistare nei rifiuti per trovare qualcosa da mangiare. Quindi non solo globalizzazione, ma anche solidarietà, non solo aiuti materiali, ma anche assistenza tecnologica e interventi diretti a quei paesi del terzo mondo che sono senza risorse e senza materie prime. E tra gli aiuti devono essere previsti anche maggiore educazione, inteso non solo come trasmissione di cultura ma anche come acquisizione di comportamenti come quello alla procreazione responsabile. Non è accettabile che in Africa certe ragazzine a 18 anni abbiano già 3 figli.

 

I REGIMI di CAMBIO

I governi possono scegliere tra un sistema di cambi fissi o flessibili, quali sono le motivazioni a favore dell’uno o dell’altro? Ognuno di questi regimi presente certi vantaggi, ma non è privo di difetti, vediamoli insieme.

 

Tassi di cambi fissi. Nel breve periodo i paesi che operano con tassi fissi e perfetta mobilità dei capitali devono rinunciare a due importanti strumenti: il tasso di interesse e il tasso di cambio. Questo riduce non solo la loro capacità di reagire a shock negativi, ma apre la possibilità di crisi di tasso di cambio. Se gli speculatori si accaniscono su un paese possono costringerlo ad alzare i tassi di interessi e di conseguenza aumentare il costo del debito pubblico.

La ragione principale per cui i paesi ricorrono a tali regimi è quello di tentare di portare sotto controllo l’inflazione. Questi paesi mantengono il tasso di cambio fisso in termini di qualche valuta estera pregiata, spesso il dollaro. È ciò che fece l’argentina, dal 1991 al 2001, fissando al tasso elevato e simbolico di 1 dollaro per 1 peso.

La grave crisi economica che ne seguì costrinse il paese sud americano a uscire dal cambio fisso e tornare a quello flessibile, che si assestò a 1 dollaro = 4 pesos. L’insegnamento che se ne trae da questo disastro economico è abbastanza evidente: l’espediente di ricorrere al cambio fisso può funzionare sul breve periodo, ma poi bisogna stare attenti che la propria moneta non si sopravalutati, ma soprattutto, appena l’inflazione si è calmata, bisogna predisporre un piano per uscire dolcemente dal cambio fisso e tornare a quello flessibile.

In effetti il cambio fisso può trasformarsi in una trappola e portare il paese al fallimento, come è successo in Argentina prima del 2000, per questo motivo è un’arma molto pericolosa. Nel giro di pochi anni bisogna uscirne.

Cambio flessibili. Il principale svantaggio di questo regime è che il tasso di cambio può fluttuare fortemente e può essere fuori del controllo della politica economica.

La maggior parte degli economisti (ed anche dei governi perché è il regime scelto dai paesi più avanzati, ad iniziare dagli USA, dal Giappone, al Canada, al Brasile euro ecc.) è per il cambio flessibile, per gli dubbi vantaggi che presenta. Ad esempio, davanti a un eccesso di importazioni di beni, la moneta nazionale si svaluta facendo tornare le proprie merci competitive. La cosa non è priva di svantaggi (in particolare si avrà un aumento del costo delle materie prime importate e dell’inflazione interna), ma comunque permette di restare sul mercato e non chiudere le proprie aziende. In effetti, la storia ci ha insegnato che nessun paese può fare a meno della “svalutazione competitiva”.

 

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LE UNIONI MONETARIE

Un gruppo di paesi fortemente integrato dal punto di vista economico, come quelli della comunità europea, può decidere di adottare una moneta unica. È ciò che è successo in Europa dal 1 genn. 2002. Gli economisti classici (tra cui R. Mundell, che è stato il primo a dedicare il suo tempo a questo tipo di studio), hanno indicato due condizioni da soddisfare per costituire un’aerea valutaria ottimale.

  1. a) I paesi dell’unione valutaria devono reagire in modo simile a shock negativi. “In un’unione monetaria è probabile che regioni con struttura economica e produttiva molto disomogenea siano soggette a shock asimmetrici” Blanchard, 2009.

 

  1. b) Elevata mobilità dei fattori, in particolare dei lavoratori che non devono avere ostacoli a spostarsi dai paesi che vanno male, a quelli che vanno meglio. Quando un paese ha un tasso di disoccupazione alto, gli inoccupati lasciano il paese per trovare lavoro altrove.

 

Secondo la maggior parte degli economisti queste condizioni non sono soddisfatte e perciò l’Europa non è considerata un’area valutaria ottimale. I paesi europei, infatti, secondo Blanchard, hanno sempre subito shock negativi in modo diverso tra loro. Tra essi egli ricorda la riunificazione tedesca e i suoi effetti diversi sulla Germania rispetto agli altri. Anche la mobilità del lavoro è bassa, ostacolata dalle differenze linguistiche e culturali e dal non riconoscimento dei titoli di studio.

Di contro se un paese si dovesse trovare in difficoltà, come è oggi soprattutto per la Grecia e l’Italia, con forte calo della domanda e della produzione, per aumentare l’attività economica non possono usare né il tasso di interesse, né il tasso di cambio. “Senza l’opzione della svalutazione ottenere un deprezzamento reale potrebbe richiedere molti anni di elevata disoccupazione e pressioni al ribasso su salari”, Blanchard, 2009.

 

Nemmeno la storia economica depone a favore dell’unione monetarie. Finora gli unici casi di unioni valutarie che si son concluse con successo nella storia economica sono state soltanto due: l’unione valutaria americana (con l’adozione del dollaro che diventò la moneta unica degli Stati Uniti), e quella del marco, che precedette l’unificazione tedesca, perciò entrambe seguite a distanza di pochi anni dall’unificazione politica. Per questo motivo nessuno dei due casi può essere considerato un’unione monetaria, in quanto si tratta semplicemente di un unione politica “avvenuta a tappe”. Considerare gli Usa un’unione valutaria significa forzare l’ordine delle cose perché gli Stati Uniti sono un unico paese, diretto da un forte governo centrale, capeggiato da un unico presidente, che parla la stessa lingua ecc.. Per questo motivo non esistono esempi “felici” di unioni valutarie. Tutti i tentativi che ci sono stati nel passato sono finiti sempre male.

 

I motivi che spingono a diffidare delle unioni monetarie, non si fermano qui, ce ne sono altri.

1 – “In un regime di cambi fissi, come è sostanzialmente l’unione monetaria, l’inflazione non può essere molto dissimile da un paese all’altro. Il paese con inflazione relativamente più elevata, infatti diventa via via meno competitivo” (Blancard, 2009).

“Se un paese del gruppo ha un tasso di inflazione sistematicamente più elevato degli altri, i suoi prodotti diventeranno meno competitivi, riducendo le sue esportazioni nette” P. Samuelson (1993). E l’Italia ha sempre avuto dal dopoguerra un tasso di inflazione superiore agli altri partner europei, in particolare di Germania e Francia. È uno dei motivi per cui la nostra economia è in difficoltà.

 

2 – Il tasso di sviluppo economico in Europa è sensibilmente diverso da un paese all’altro. Il tasso di cambio con la svalutazione o la rivalutazione di alcune monete recupera l’equilibrio di mercato e tutto ritorna alla normalità. Con la moneta unica tutto questo è impossibile.

Verrà equilibrato solo con una spinta verso il basso dei salari e dei prezzi, cioè con le sofferenze di molta gente in prima luogo di operai, in secondo luogo dei produttori nazionali. Ma in tempi di globalizzazione come questi non è difficile che questi ultimi decidano di chiudere e delocalizzare in un paese del terzo mondo.

 

3 – Gli Stati Uniti costituiscono un’area ottimale perché esiste un governo centrale che investe risorse per risollevare le aree depresse o quelle colpite da shock negativi. Quando c’è stata l’alluvione di New Orleans, ad esempio, la città è stata ricostruita in gran parte con i fondi federali.

È vero, anche in Europa ci sono i fondi europei, però ci sono due problemi: non li ottiene chi sta peggio, ma chi è capace di presentare i progetti migliori. L’Italia nel 2009 ha perso vari miliardi perché non è stata capace di utilizzarli proficuamente, in altre parole questi soldi sono tornati alla comunità europea.

In secondo luogo, i fondi europei con l’ingresso di paesi ex comunisti, quindi più poveri, come la Romania, la Bulgaria ecc., vanno a questi ultimi, e non a coloro che hanno un tasso di crescita molto più basso. I fondi europei dovrebbero servire a ripianare le differenze di sviluppo tra le diverse aree, non a risanare i problemi ereditati dal passato.

 

Non andiamo oltre perché il discorso è lungo, diciamo che se le unioni valutarie fosse stata una cosa buona oggi nel mondo ne esisterebbero diverse, ad incominciare tra Canada, Usa e Mexico, ma il di là di qualche vago proclama, nessuno ha fatto mai passi concreti in questa direzione.

L’unico caso è l’euro in Europa, ma se ne vedono già l’effetti negativi: tutti paesi mediterranei a cominciare da Grecia e Italia, sono in recessione e hanno accumulato debiti pubblici enormi. Neanche gli altri paesi, compreso la Germania, hanno dei tassi di sviluppo entusiasmanti. Nei paesi più “bravi” il Pil cresce (dati del 2015) intorno al 3%, ma il resto supera appena l’1%, quelli in crisi si devono accontentare di una frazione di punto e la media si attesta introno allo 0,50%. Risultati molto modesti, inferiori alle medie dei paesi di tutto il mondo, cosicché non ha del tutto torto chi dice che c’è un buco nella crescita dell’economia mondiale: la zona dell’euro. Speriamo che un domani nuovi economisti convincano i governi ad adottare un sistema di cambi meno rigido.

 

Fine

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