I sistemi presidenziali…

LE REPUBBLICHE PRESIDENZIALI

La repubblica presidenziale è una forma di governo in cui il potere esecutivo è concentrato nella figura del Presidente, che è anche il capo del governo.

Questi è eletto democraticamente direttamente dal popolo a cui “direttamente” risponde del suo operato. La legittimazione attraverso il voto le conferisce una chiara superiorità rispetto ai suoi ministri, mentre nei sistemi parlamentari è soltanto il “primo ministro”.

 

Ma andiamo con ordine.

Le caratteristiche istituzionali principali dei regimi presidenzialisti, secondo i politologici, sono essenzialmente quattro:

1) Legittimazione democratica separata dell’esecutivo del Parlamento, cioè il presidente viene eletto direttamente dal popolo.

2) Termine fisso del mandato presidenziale, il parlamento non può né insediare, né far cadere il governo.

3) Fusione delle due cariche di capo dello Stato e Capo del governo.

4) Il presidente presiede o dirige i governi da lui nominati in piena libertà. Egli sovrasta gli altri membri del suo governo che dipendono da lui.

 

Il sistema presidenziale è frutto di un’ingegneria costituzionale molto diversa da quella in uso nei sistemi parlamentari dei paesi europei. Negli Stati Uniti l’elezione diretta del presidente rende assai meno determinante il ruolo delle due camere, che svolgono prevalentemente una funzione di controllo sull’operato dell’esecutivo e nella formazione delle leggi, ma non esprimono la fiducia al governo. Il presidente forma, infatti, in piena autonomia, il proprio gabinetto e determina ogni aspetto della politica nazionale.

Non solo, ma il presidente è dotato di potere di veto sulle iniziative del Parlamento, in entrambi i suoi rami, In effetti, questo sistema accentra tutto il potere nelle mani del presidente, che ha piena autonomia di agire e ne risponde direttamente all’elettorato. In molti paesi, che adottano questo sistema, il presidente ha anche il potere di governare per decreto, scavalcando il congresso, quasi fosse un piccolo dittatore.

 

Nei regimi presidenziali, inoltre, non sono previste possibilità di revoca della fiducia politica nel corso del mandato presidenziale, a meno che non ci siano gli estremi per ricorrere alla procedura di impeachment, ma si può farlo solo in presenza di gravi reati.

In effetti negli Stati Uniti, se ci si imbatte in un “cattivo” presidente bisogna aspettare che finisca il suo mandato per poterlo mandare a casa. “La forma di governo presidenziale si caratterizza per una stabilità istituzionalmente predeterminata” M. Cotta, 2009. Nei regimi parlamentari, invece, in qualsiasi momento il Parlamento può sfiduciare il governo e provocare nuove elezioni. È una possibilità in più che esiste, ma che ha il grave difetto di rendere i governi meno stabili.

La seconda dimensione che differenzia le forme di governo parlamentari e quelle presidenziali è la struttura interna del governo.

Nel presidenzialismo il capo dell’esecutivo stesso, cioè il presidente, ha uno stato effettivamente distinto da quello degli altri componenti (ministri o segretari di Stato) e chiaramente ad essi sovraordinato, mentre nel sistema parlamentare i ministri del capo del governo si collegano fondamentalmente sullo stesso livello, per questo motivo il capo del governo è chiamato anche Primo Ministro. In effetti, negli USA il presidente sceglie liberamente i suoi collaboratori e i suoi ministri, che dipendono da lui, quindi si circonda di un gruppo disciplinato di sua fiducia che gli ubbidisce fedelmente.

Cosa non facile da ottenere nei regimi parlamentari, infatti, non di rado in Italia sono state proprie le persone vicine al Presidente del Consiglio a mettere in crisi il governo. Ad esempio, nel 2010 il governo Berlusconi fu fatto cadere proprio dalla defezione di un gruppo di deputati appartenenti alla sua maggioranza.

 

Non andiamo oltre, diciamo solo che nel caso si decidesse di passare a questo sistema, non ci si deve limitare solo a cambiare il sistema elettorale, ma occorre predisporre le cose affinché l’iniziativa passi nelle mani del presidente, che deve avere più poteri e formare in piena libertà il governo. In parole semplici, non bisogna limitarsi a un semplice innesco, come l’introduzione dell’elezione diretta del Presidente della Repubblica, ma cambiare tutta l’ingegneria costituzionale. Ad esempio, il presidente deve avere il potere di veto sulle due camere, in modo che può bloccare ogni provvedimento a cui è fermamente contrario.

 

I regimi presidenziali, che nel 2005 erano più di 20 in tutto il mondo, oggi li troviamo soprattutto nel continente americano, dal Canada all’Argentina. Il paese che è ritenuto l’emblema di tutti i regimi presidenziali, però, sono gli Stati Uniti, primo esempio nel mondo di presidenzialismo e modello per tutti gli altri.

 

    I vantaggi dei sistemi presidenziali. Il più importante dei pregi di questo sistema primo è maggiore stabilità, una guida forte e unitaria; cioè al di là delle discussioni e dei dibattiti che possano esserci in Parlamento, c’è qualcuno che in ultima analisi decide e ne è responsabile. Negli Stati Uniti, se le cose non funzionano, il cittadino sa a chi dare la colpa.

Al contrario nei sistemi parlamentari spesso non è facile attribuire le responsabilità. In caso di fallimento si assiste al classico scaricabarile. La democrazia non significa, come abbiamo detto, governo di tutti o condivisione del potere, ma che chi ha vinto le elezioni ha il diritto di governare il paese. Con il sistema presidenziale si dà carta bianca al presidente, che dovrà risponderne all’elettorato dopo 4 o 5 anni.

 

Il secondo merito è che si dà più spazio ai leader, limitando l’influenza dei partiti. In effetti, con il presidenzialismo c’è meno partitocrazia e più rinnovamento, in quanto sono i personaggi politici, che emergono volta per volta, a condizionare le linee politiche e non gli apparati di partito, come purtroppo succede in paesi come l’Italia. Nei regimi presidenziali, infatti, è l’uomo, il leader, a predominare sul partito. Il risultato è che ogni 2 o 3 turni elettorali si hanno volti nuovi (vedi USA), in quanto ogni partito va alla ricerca dei candidati “giusti” per battere gli avversari. Nelle democrazie clientelari, invece, al potere ci vanno i “più anziani” perché hanno avuto più anni per tessere le loro “reti clientelari”.

Non è un caso che in Italia l’età media dei parlamentari è tra le più alte di Europa e che non di rado troviamo nelle cariche più alte, come la Presidenza della Repubblica, persone con più di 80 anni.

 

I difetti. Sono in molti i politologi, a partire da Giovanni Sartori,a giudicare negativamente i sistemi presidenzialisti. In Europa li vediamo in modo positivo, romantico, perché non abbiamo mai sperimentato a nostre spese i difetti di questi regimi, li consideriamo, infatti, un’alternativa ai governi deboli, un rimedio contro l’instabilità politica, il trasformismo ecc..”Il presidenzialismo, in larga misura, ha funzionato male, con la sola eccezione degli Stati Uniti. Tutti gli altri sistemi presidenziali sono stati fragili, soccombendo regolarmente a colpi di stato o a rivoluzioni.” G. Sartori, 2004.

Secondo lo stesso autore anche il modello americano non è che funzioni molto bene, il potere esecutivo esiste separatamente dal parlamento, come un corpo autonomo. E dato che ci sono le elezioni di medio termine ed ecco che di frequente ci si trova davanti al problema del “governo diviso”. Eisenhower fu il primo a imbattersi in un congresso controllato dal partito di opposizione, ma dal 1955 al 1992 il governo è stato diviso per 20 su 24 anni. E se la presidenza Clinton ha ristabilito nel 1993 una maggioranza indivisa, le cose sono andate bene solo per 2 anni, poi si è ritrovato in minoranza in tutte e due le camere. Il problema si è riproposto con Barack Obama.

 

Questo difetto, e qui la maggioranza dei politologi è d’accordo, espone il sistema americano al rischio di paralisi e rende il modello non esportabile. In paesi, infatti, dove esiste un maggiore radicalizzazione della lotta politica che negli Stati Uniti potrebbe portare il sistema in stallo o, addirittura, alla caduta della democrazia.

“La credenza che i sistemi presidenziali siano forti si fonda sul peggior assetto strutturale possibile, un potere diviso, indifeso contro il governo diviso, e non afferra che il sistema americano funziona “nonostante la sua costituzione. È ancora in grado operare in presenza di 3 fattori: assenza di principi, partiti deboli e indisciplinati e una politica di concessioni localistiche. Grazie a questi fattori, un presidente può ottenere i voti che gli occorrono elargendo favori locali”, G. Sartori, 2004. Un sistema che costringe a metodi clientelari non può essere certamente preso a modello.

 

In effetti il presidenzialismo statunitense, secondo quest’ottica, può funzionare in un paese dove esistono solo due partiti, non molto lontani ideologicamente e dove non esistono forti contrasti e la lotta non ha forti colorazioni ideologiche. “È risaputo che i partiti americani più che partiti elettorali, forniscono“etichette” a due candidati che si combattono in collegi uninominali” G. Sartori, 2004. In effetti secondo Sartori “il sistema americano funziona perché gli americani sono determinati a farlo funzionare” e detto da una persona che ha insegnato a lungo nelle migliori università degli USA non è da prendere certamente alla leggera.

 

Se ci trasferiamo in sud America le cose vanno anche peggio. Qui i sistemi presidenziali esibiscono un record preoccupante di fragilità e instabilità. In termini di longevità il Costarica è quello che ha fatto meglio, perché il grosso dei paesi latino americani, Argentina, Brasile, Uruguay Cile ecc., ha ristabilito la democrazia soltanto negli anni Ottanta. Non solo, ma un considerevole numero di questi paesi sono pur sempre da classificare come democrazie incerte o come sistemi politici altamente esposti a rovesciamenti.

Giovanni Sartori avverte anche a diffidare di pregiudizi e credenze molto comuni in Europa. “I presidenti latini americani, ad es., non sono affatto così potenti come può sembrare”. “La maggior parte dei presidenti latini americani si è trovata in difficoltà nell’attuare i loro programma. Pur avendo il potere di iniziare politiche, è stato loro difficile ottenere il sostegno necessario ad attuarle” Mainwaring, 1990.

Anche secondo un altro famoso politologo che ha studiato a lungo questi regimi “il presidenzialismo è tendenzialmente meno adatto del parlamentarismo a sorreggere regimi democratici stabili”, Linz (1990).

Anche perché “lo stato d’animo oggi prevalente è piuttosto, di tarpare le ali al presidente, in quanto le ripetute prese dittatoriali del potere del passato sono viste, a volte giustamente, a volte erroneamente, come risultato della sua onnipotenza” G. Sartori, 2004.

 

Un altro difetto è che i sistemi presidenziali sono rigidi, in quanto hanno una durata prestabilita che non si può cambiare, mentre i sistemi parlamentari sono più flessibili e un governo impopolare si può mandare a casa in qualsiasi momento. Linz sostiene che un regime flessibile è assai meno rischioso, grazie ai meccanismi auto correttivi, di un sistema rigido. Come ben evidenziato da Valenzuela “le crisi dei sistemi parlamentari sono crisi di governo, non di regime”.

Da tutte queste critiche emerse, estrapoliamo le patologie a cui possono andare incontro i sistemi presidenziali, per poi studiare i modi per poterle correggere.

 

LE PATOLOGIE DEI SISTEMI PRESIDENZIALI

I sistemi presidenziali possono andare incontro principalmente a 3 tipi di patologie: il governo diviso, che può significare ingovernabilità; la presidenza imperiale, che può portare a un regime “autoritario” con un presidente “onnipotente”, nel migliore dei casi paternalistico, nel peggiore sfociare in una dittatura personale.

 

Il governo diviso.“Il problema maggiore del presidenzialismo, in particolare di quello statunitense, è costituito dalla presenza in carica di un presidente il cui partito non abbia la maggioranza nei due rami del congresso. In questo caso, il presidenzialismo dà luogo a quello che viene definito governo diviso” G. Pasquino, 2009. Del governo diviso conosciamo le difficoltà decisionali che il presidente non di rado decide di superare in maniera clientelare o in maniera retorica. Nel primo caso tenta di scambiare le risorse di cui dispone con i voti dei rappresentanti non del tutto ostili.

Nel secondo caso, cercherà di convincere l’elettorato a far pressione sui suoi rappresentanti affinché sostengono il presidente che hanno eletto direttamente. Infine, il superamento può essere anche autoritario, se il presidente ricorrerà a minacce o farà pressioni sugli organismi di sicurezza e militare che ha il potere di controllare. È un grosso rischio, perché ciò che inizia come una semplice necessità, può aprire la strada a un presidenzialismo di tipo autoritario e trasformare il regime in una dittatura.

Da ciò l’importanza di modificare il sistema elettorale in modo che vince le elezioni, oltre a diventare presidente, abbia anche la maggioranza in Parlamento. Ci torneremo più avanti.

 

La presidenza “imperiale”.Il termine è un’invenzione piuttosto recente: è stata introdotta per la prima volta nel 1973 dallo storico Arthur Schlesinger che, nell’omonimo libro, parla di presidenza imperiale quando il presidente accentra nelle sue mani tutto il potere e scavalca il congresso rivolgendosi direttamente alla nazione. In parole povere, con un presidente carismatico e una forte personalità, il regime può sfociare in una forma di dittatura personale. L’esperienza purtroppo ci insegna che non è un caso raro, in centro e sud America abbiamo avuto diversi esempi del genere.

 

Tentazioni autoritarie. La critica più comune che si muove ai sistemi presidenziali, è che sono a rischio di soluzioni autoritarie. Concentrare tutto il potere e le più alte cariche dello Stato nelle mani di una sola persona può essere molto pericoloso (si dice che l’occasione fa l’uomo ladro). Pensate a un presidente che è stato al potere per due mandati, circa 10 anni, in Argentina addirittura 12 anni, ormai si è creato una rete di relazioni e di contatti con tutte le persone e le istituzioni più importanti, ad iniziare dagli alti vertici militari, ai maggiori imprenditori, ai sindacati ecc., diciamo che ha ormai “tutto sotto controllo”. Se alla fine del mandato non vuole lasciare la presidenza, diventa difficile “sfrattarlo”.

Nel migliore dei casi cercherà di prolungare di uno o due mandati il suo incarico, nel peggiore darà luogo a una democrazia di facciata, conservando tutto il potere nelle sue mani. È successo in molti paesi del sud e centro America. È stato così che H. Chavez in Venezuela ha governato il paese per circa 14 anni, come un piccolo dittatore.

 

In effetti questi regimi sono suscettibili di “abusi di potere”, tenendo presente che a molti presidenti del centro e Sudamerica è permesso governare per decreto, ossia scavalcando il Parlamento. “Il decretismo è endemico e spesso epidemico in gran parte dell’America latina. Un caso estremo è quello del Brasile. Il presidente Sarney promulgò, durante il periodo in carica, sotto la costituzione del 1988, ben 142 decreti di emergenza equivalenti a uno ogni 4 giorni; e nel 1960 il governo di Collor ne promulgò 150, quasi due, ogni 2 giorni lavorativi. Il decretismo pertanto diventa uno strumento normale di governo”, G. Sartori, 2004.

Delle misure per superare questi problemi parleremo nel paragrafo successivo.

 

IL SISTEMA PRESIDENZIALE IDEALE

    La discussione tra chi sia il migliore, il sistema parlamentare o quello presidenziale, è ancora del tutto aperta, in quanto non esistono risposte definitive. Noi concordiamo con quanto scrive G. Sartori “tanto il presidenzialismo che il parlamentarismo, soprattutto nella forma più pura, lasciano molto a desiderare”.

Non è solo il nostro parere, in tutto il mondo serpeggia una certa insofferenza verso i sistemi elettorali oggi in uso, che, chi per un verso, chi per un altro, hanno tutti i loro difetti. “Ai paesi sud americani consigliano di adottare il parlamentarismo, ma i francesi l’hanno abbandonato con sollievo, sono molti gli inglesi frustati dalla loro camicia di forza bipartitica, ma molti italiani pensano che il sistema inglese sia magnifico. Critichiamo di solito il sistema che abbiamo, ma spesso sbagliamo nel valutarne le alternative e i loro benefici” G. Sartori, 2004.

Noi siamo convinti che quasi tutti gli attuali sistemi elettorali presentano grossi difetti e che ancora non è stato ideato quello “quasi perfetto”.

Il problema principale è che i politici, da tempo si sono resi conto che i sistemi elettorali producono notevoli conseguenze sul sistema di partiti, perciò ognuno si batte per quello che maggiormente li può favorire nelle competizioni (infatti un po’ in tutto il mondo sono oggetto di aspre contese).

 

In secondo luogo “Una volta che un sistema elettorale è stabilito, i suoi beneficiari proteggono i loro interessi consolidati e fanno di tutto per continuare a giocare la partita con le regole a cui sono abituati” G. Sartori, 2004.

Per questo motivo, a nostro giudizio, spetta ai politologi studiare un nuovo sistema elettorale, che, basandosi su studi comparati e sull’esperienza storica, riunisca i vantaggi dei vari sistemi esistenti nel mondo (e siano completi di meccanismi per evitare le degenerazioni contro cui possono andare incontro le democrazie moderne). Noi l’abbiamo fatto e dopo anni di studio e di confronto, siamo arrivati a disegnare un modello ideale, adatto ai regimi presidenziali (come abbiamo fatto nelle pagine precedenti, per quelli parlamentari). “Gli studiosi possono fare poco per contrastare gli interessi personali dei politici, il che non toglie che devonodare loro dei buoni consigli”, G. Sartori.

 

IL SEMI PRESIDENZIALISMO. Le abbiamo dato questo nome, ma ciò non deve trarre in inganno e far pensare subito al semipresidenzialismo alla francese, che è quello che attualmente tra gli studiosi gode di maggiore stima. Noi non siamo d’accordo, a nostro giudizio il sistema francese presenta gli stessi inconvenienti del “governo diviso” del presidenzialismo americano.

“Nei sistemi presidenziali il presidente è protetto e isolato dall’intromissione parlamentare dal principio della divisione dei poteri. I sistemi semi presidenziali, invece, operano sulla base di un potere condiviso: il presidente deve condividere il potere con il primo ministro, e questo ultimo deve condividere il potere col primo ministro. Qualsiasi costituzione semi presidenziale costituisce una diarchia, tra Presidente e Capo dello stato”, G. Sartori, 2004. In effetti, come sostiene lo stesso studioso in un altro punto del suo volume “ingegneria costituzionale comparata”, il semipresidenziale è “un sistema a doppio motore, finché i due motori operano insieme non ci sono problemi, ma cosa succede se cominciano a spingere in direzioni opposte?”

Una nave con due capitani non proseguirà mai diritta, perciò a nostro giudizio è un sistema non esportabile. In un paese multipartitico, dove la lotta politica è radicalizzata, la “coabitazione” tra un Presidente e il Primo Ministro appartenenti a opposte fazioni politiche (che se mai si odiano), potrebbe far vivere in un clima di forte tensione e portare il paese allo stallo e all’immobilità.

Il sistema elettorale da noi proposto, invece, può essere più facilmente ritenuto come un incrocio tra quello statunitense e il sistema parlamentare italiano.

 

Il nostro modello prevede due turni elettorali: le primarie e le secondarie.

Le primarie, come quelle americane, non si svolgono contemporaneamente in tutto il paese. Si comincia, ad esempio in 4 regioni, poi si passa ad altre quattro, poi a un altro gruppo ecc., fino a che non ha votato tutto il paese. Il raggruppamento delle Regioni in cui si vota nello stesso giorno deve essere organizzato tenendo conto del fatto che i candidati, durante la campagna elettorale, devono spostarsi da un posto all’altro, perciò è preferibile abbinare regioni limitrofe o non troppo distanti. Ad es. in Italia si potrebbe votare prima in Piemonte, Liguria e val d’Aosta insieme, dopo 3 settimane, in altre 3 regioni limitrofe, questa volta del sud, per alternare.

La competizione, al primo turno, non è solo tra i partiti o tra le coalizioni (non sono permesse coalizioni di più 3 partiti), ma è soprattutto all’interno dei partiti, cioè decide chi deve diventare il candidato presidente di quel partito. È perciò il popolo a scegliere e non i partiti come succede oggi in Italia. Le primarie, infatti, come negli Stati Uniti, si presentano come una forma di “selezione naturale”. Man mano che si andrà avanti molti candidati saranno costretti a rinunciare, altri dovranno allearsi o si proporranno come vice presidente di un candidato più forte ecc.. In questa prima parte si ricalca fedelmente ciò che succede nel paese nord americano.

 

Questo sistema scoraggia la frammentazione politica e spinge a fare coalizioni, in quanto un candidato presidente può sperare di passare al secondo turno, solo se può contare su un ampio appoggio elettorale. Però, a differenza di certi sistemi maggioritari, non obbliga a coalizzarsi per sopravvivere. Un partito se trova dei buoni alleati, bene, altrimenti può decidere di correre da solo, in quanto gli basta arrivare al ballottaggio. In effetti, si verificherà che ogni coalizione, composta da più partiti, se vuol vincere, sceglierà un candidato valido e farà convergere i voti su di lui.

Allo stesso modo i piccoli partiti non dovranno per forza contrarre “alleanze innaturali” per sopravvivere, perché il sistema garantisce loro (come diremo più avanti) una quota proporzionale. Tutto ciò farà sì che le coalizioni siano più omogenee.

 

Sempre allo scopo di limitare l’effetto del voto di scambio, anche qui come nel caso dei sistema ideale disegnato nelle pagine precedenti, sono previste due schede: una per eleggere il presidente e una per le preferenze, cioè per eleggere i parlamentari. Attenzione, però, anche qui, come nel proporzionale corretto da noi proposto, è la prima scheda, quella in cui è indicato il nome del candidato Presidente (accanto al simbolo del suo partito), a determinare il numero di parlamentari da assegnare a ciascun partito. La seconda, quelle per le preferenze, serve unicamente a decidere quali candidati, di quel partito, dovranno andare in Parlamento.

 

    Le secondarie. Una volta svolte le primarie, resteranno in corsa solo due candidati a presidente, uno di un partito (o di una coalizione) e uno di un altro (tutto al più si può prevedere un terzo candidato, se la differenza della percentuale dei voti tra il secondo e il terzo, è piccola, meno del 4%). Gli altri candidati restano alla finestra, cioè non deve essere, infatti, prevista nessuna possibilità di accordo o possibilità di coalizioni al secondo turno per evitare che si svolga quello che i politologi chiamano “il mercato delle vacche”, cioè manovre dei partiti per comprarsi l’appoggio di quelli minori. Come nel “sistema parlamentare ideale” proposto nelle precedenti pagine, chi si vuole coalizzare lo deve fare prima delle primarie, perché chi perde, poi è tagliato fuori dalla competizione elettorale.

Una volta terminate le primarie, ognuno dei due candidati alla presidenza incontra la sua base, cioè i deputati eletti del suo partito, per approntare il programma, stabilire le strategie elettorali e formare la squadra di governo, cioè decidere, in caso di vittoria, chi saranno i ministri del futuro governo.

Alla fine, si fa il ballottaggio. Chi vince va al governo e ottiene la maggioranza dei voti il cui numero è prefissato in precedenza. Lo vedremo nel prossimo paragrafo.

 

    Il parlamento. Il nostro modello prevede due camere “asimmetriche”, cioè con compiti del completamente diversi: la camera dei deputati per gli affari ordinari e il senato che funziona come assemblea costituente cioè viene riunita solo in casi straordinari (ad es. se si vuole cambiare la Costituzione o il sistema elettorale, si deve eleggere il Capo dello Stato ecc.). I senatori vengono pagati con dei gettoni presenza, cioè quando stanno casa non ricevono alcun compenso.

La camera dei deputati sarà formata da 420 seggi, di cui 230 vanno al partito (o alla coalizione) che ha vinto e sostiene il presidente e 190 ai partiti di opposizione, divisi in modo proporzionale in base ai risultati delle primarie. In questo modo anche i piccoli partiti saranno rappresentati in Parlamento.

In effetti, come nei regimi parlamentari, il presidente gode di una maggioranza in parlamento, è proposto e sostenuto da un partito o da una coalizione, non sono previsti governi di maggioranza relativa, presidenti minoritari ecc.. Se il presidente va in minoranza, si torna a votare.

 

Il governo. Come nei regimi presidenzialisti i Ministri vengono scelti in piena libertà dal Presidente del Consiglio, tra i parlamentari e non. Unica limitazione: non può nominare deputati, senatori o dirigenti appartenenti ai partiti all’opposizione. Ciò per evitare che il presidente si compri con favori o cariche l’appoggio palese o tacito di questi ultimi.

 

Il capo dello stato. È il “guardiano della costituzione”, colui che deve controbilanciare il potere del presidente e ed evitare che egli possa essere tentato ad intraprendere percorsi autoritari. Per questo motivo è il capo delle forze armate ed egli ne presiede il Consiglio Interforze. Non solo, ma ha anche voce in capitolo nella carriera degli ufficiali dello Stato maggiore, se ritiene qualcuno antidemocratico, può mettere il suo veto e questi sarà escluso dagli alti comandi.

Il presidente della Repubblica, nel modello da noi disegnato, è anche il capo anche della Corte Costituzionale e del Consiglio Superiore Della Magistratura, cioè guida il potere giudiziario. In effetti è l’altro potere forte, colui che deve “sbarrare” il passo a un eventuale presidente che voglia abusare dei suoi poteri e instaurare un regime non democratico.

 

    La “coabitazione”. Questo pericolo, a differenza del semipresidenzialismo francese (col termine coabitazione in Francia si intende, infatti, che coesistono due Presidenti appartenenti ad opposti partiti politici), nel nostro modello è scongiurato perché il presidente della Repubblica e il Primo Ministro o Presidente del Consiglio, hanno compiti completamente diversi e ben precisati dalla Costituzione. Il Presidente del Consiglio è il capo del governo, colui che porta avanti la sua linea politica e fa approvare le leggi in Parlamento, cioè è responsabile per gli affari ordinari.

 

Il presidente della Repubblica, come succede anche oggi in Italia, è solo il “guardiano della costituzione”, controlla che il Presidente del Consiglio segua le procedure previste dalla legge, ad esempio legittimi i decreti legge con un voto in Parlamento entro 60 giorni.

Non è importante che sia di partito avverso, anzi è meglio che appartengano a due fazioni politiche contrapposte, perché il controllore deve essere diverso dal controllato. L’importante è che la Costituzione stabilisca con precisione i suoi compiti e i suoi limiti, lasciando poco spazio alla discrezionalità e all’iniziativa personale. Ad esempio, specifichi bene che il Presidente della Repubblica può sciogliere il Parlamento solo dopo che un voto di sfiducia palese, ha messo in minoranza il Primo Ministro.

In altre parole non può fare “quello che vuole”, ma deve attenersi strettamente alla Costituzione. Quest’ultima può essere cambiata solo con un voto alle due camere (perciò deve essere riunito anche il Senato a tale scopo) e con un referendum popolare.

In effetti anche in questo caso bisogna prevedere una rigida procedura per evitare eventuali abusi da parte di politici diventati “molto potenti”.

 

Durata. La maggior parte dei paesi presidenziali contempla una durata in carica del presidente tra i 4 e 5 anni. Crediamo che quattro anni siano più che sufficienti, anzi si possono prevedere anche periodi più brevi. Una proposta interessante potrebbe essere quella di tenere una votazione di conferma già dopo tre anni, per sottoporre la linea politica del presidente al voto popolare. In questo caso, però, si potrebbero prevedere altri due mandati di 3 anni, per un totale di nove.

Se, invece, si sceglie la soluzione di un mandato di quattro anni, la cosa importante è fissare un limite, come negli Stati Uniti, di due mandati. In altre parole nessuno può ricoprire tale carica per più di 8 anni, termine che non può essere modificato nemmeno con un intervento sulla costituzione. Ci torneremo più avanti.

 

I CORRETTIVI. Al fine di superare le patologie a cui possono incorrere i sistemi presidenziali è necessarie ricorrere a queste misure.

 

Governo diviso. Le elezioni del presidente e del parlamento devono avvenire simultanee per evitare che spostamenti dell’opinione pubblica nel tempo lascino il presidente senza una maggioranza. Non si può stare dietro ai mutamenti dell’opinione pubblica altrimenti diventa impossibile impostare una coerente politica a lungo termine. “Non ci sono alternative il presidente e il parlamento devono essere eletti simultaneamente e simultaneamente devono decadere. Questa è una condizione cruciale” G. Sartori, 2004.

 

Fedeltà al mandato. È vietato il cambio di casacca (crossing the floor), cioè che persone elette nelle partito di maggioranza, al governo, passino all’opposizione. Nel caso che un deputato cambi idea e abbandoni la maggioranza, il Presidente ha il potere di chiederne la sostituzione col primo dei non eletti, questo però fino al massimo del 10% dei seggi (nel nostro esempio 20 deputati). Se si verifica una defezione di un numero maggiore, infatti, non ci troviamo di fronte a dissensi isolati ma a una scissione, un governo perciò non gode più della fiducia del parlamento e quindi non resta che andare al voto.

Non è l’unica misura per evitare che il presidente si trovi davanti a “partiti volatili” o a parlamentari che hanno l’abitudine, come succede in Brasile, di trasmigrare con frequenza da un partito all’altro. Qualsiasi deputato che esce dalla maggioranza non può iscriversi o aderire a un altro partito per 4 anni. Non solo, ma per 2 anni non può candidarsi neanche alle elezioni locali. Ciò deve rimanere 2 anni in stand by.

Inoltre, in tale periodo non può ricoprire nessuna carica pubblica, questo per evitare che l’opposizione faccia cadere il governo convincendo alcuni deputati con la promessa di incarichi ben rinumerati. Lo scopo è di rendere difficile il passaggio di parlamentari da un gruppo all’altro, in cerca di cariche e poltrone.

L’india era da tempo afflitta da partiti amorfi e tipicamente instabili. I membri del partito, nel corso dei decenni, erano diventati esperti in scissioni e trasmigrazioni. Quando, però, furono prese delle contromisure tutto questo cambiò. Nella “camera del popolo” un parlamentare che abbandonava il partito di elezione perdeva il seggio, il che li rese più disciplinati e il parlamento più gestibile. .

Col tempo, però, i parlamentari impararono ad aggirare questa sanzione; quando volevano uscire dal partito dichiaravano una scissione.

Anche a questo problema, ben presto, fu trovata una soluzione: per essere riconosciuta come scissione occorreva che almeno un terzo dei parlamentari abbandonasse il partito originale. Bastarono queste semplici regole per riportare l’ordine nel Parlamento indiano.

È la proposta suggerita anche da G. Sartori: “se il deputato esce dal proprio gruppo parlamentare non può aderire a nessun partito” (e tantomeno entrare a far parte della maggioranza).

 

Presidenziale imperiale e tentazioni autoritarie. Nel modello da noi disegnato, a fianco del Presidente del consiglio c’è la figura del Capo dello stato che bilancia bene il suo potere nel caso egli voglia tentare una soluzione autoritaria.

In secondo luogo anche se il presidente ha diritto di veto sulle proposte di leggi presentate alla camera, non può governare per decreto, o meglio i decreti legge perdono efficacia se il Parlamento non li converte in legge entro 60 giorni.

 

    Numero predeterminato di seggi. Anche il numero dei seggi destinasti all’opposizione è fissato per legge, nel nostro caso 190 seggi. Ciò per evitare che all’opposizione resti uno sparuto gruppo di parlamentari, se mai spaventati e disorganizzati.

 

Cambio della Costituzione e sistema elettorale. Il Presidente del Consiglio non ha il potere di cambiare, come abbiamo accennato, a suo piacere né l’una, né l’altro. Per farlo non solo ha bisogno di un voto di maggioranza alla camera, ma deve chiedere la convocazione del Senato (eletto con sistema proporzionale, in cui ci sono anche i rappresentanti delle Regioni e di altri enti locali, nonché della magistratura) e poi confermare con il voto popolare di un referendum le decisioni prese.

Non può neanche chiedere un ulteriore mandato, cioè un terzo. Anche per questa modifica, infatti, ha bisogno del consenso del Presidente della Repubblica, del Senato e di un referendum popolare. Nessuno, infine, può autorizzare una durata maggiore di tre mandati, che deve essere ritenuto il limite naturale, il confine oltre cui finisce la democrazia.

 

Il presidenzialismo forte. È un regime presidenziale consigliabile nei paesi con lunghe tradizioni democratiche, in cui non esiste nessun pericolo di colpi di stato o di soluzione autoritaria, come negli Stati Uniti, in Inghilterra ecc..

Questo modello è presto disegnato. Resta tutto come nel caso precedente, manca solo (come negli USA e nella stragrande maggioranza dei regimi presidenziali) la figura del capo dello Stato. La durata del mandato è fissata per legge (4 o 5 anni) e nessuno prima di allora può mandare a casa il presidente, tranne che in caso di impeachment.

Chiaramente diventa tutto più semplice e non si ha bisogno della presenza di una figura forte, come il Capo dello Stato. Esiste solo il problema di una maggiore rigidità del sistema e nel caso ci si imbatta in un “cattivo” Presidente, bisogna aspettare che finisca il suo mandato per poterlo sostituire. Nel modello del semipresidenzialismo, sopra descritto, invece, può essere sfiduciato in qualsiasi momento.

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