15 – Il MINISTERO DEL LAVORO

CAPITOLO VII

Il MINISTERO LAVORO e IMMIGRAZIONE

La funzione principale di questo Ministero è regolare il mercato del lavoro. Il suo compito è quello di elaborare le politiche del lavoro e dell’occupazione, promuovere la formazione professionale, tutelare la sicurezza sul lavoro e la corretta applicazione della disciplina del lavoro, conciliare le controversie di lavoro individuali e collettive, coordinare l’ingresso di lavoratori provenienti da paesi non facenti parte dell’Unione Europea e tutelare i lavoratori italiani all’estero.

Le principali tematiche inerenti questo ministero sono soprattutto quattro: 1 – L’avviamento al lavoro. 2 – La tutela dei lavoratori 3 – La tutela degli imprenditori. 4 – La regolamentazione del diritto di sciopero. 5 – La regolazione dei flussi immigratori.

 

L’AVVIAMENTO AL LAVORO

Esistono due esigenze che devono incontrarsi: quella del lavoratore che cerca lavoro e quella dell’imprenditore che vuole assumere lavoratori. La scelta, anche in questo caso, è tra strutture pubbliche, in Italia “gli uffici di collocamento”, e agenzie private, in Gran Bretagna “Agenzie di lavoro”.

 

Le agenzie pubbliche. È lo stato a fare da mediatore fra imprenditori e lavoratori, mentre sono proibite le agenzie di lavoro private. Con questa soluzione non si cerca di speculare su coloro che sono alla disperata ricerca di un lavoro e non costano quasi niente al lavoratore.

Ma presentano numerosi svantaggi: sono finanziati allo Stato e costituiscono una voce passiva nei bilanci, spesso sono inefficienti (ad esempio la produttività è bassa), sono frequenti i casi di clientelismo e di corruzione ecc.. Non sono mancati casi di politici che hanno sfruttato le loro amicizie negli uffici di collocamento per costituirsi un discreto pacchetto di “clienti”. Il sistema delle agenzie pubbliche è stato abbandonato nella maggior parte dei paesi occidentali.

 

Agenzie di lavoro private. Molti paesi europei, come l’Inghilterra, preferiscono lasciare l’iniziativa in questo settore completamente ai privati. Le agenzie di lavoro presentano innegabili vantaggi rispetto agli uffici di collocamento: non costano niente allo stato e sono più efficienti, in quanto il privato è più motivato a cercare il lavoro ai suoi clienti, perché così ci guadagna. Inoltre, non sono possibili casi di favoritismi. Le agenzie di lavoro private, però, hanno il grave difetto che quando in un paese il lavoro scarseggia possono chiedere parcelle esose ai lavoratori tanto da trasformarsi in sistemi di sfruttamento; ad esempio prendono una percentuale su tutti i suoi guadagni presenti o futuri (una specie di tangente a vita sul lavoratore). Per questo motivo, se si sceglie questa soluzione è necessario introdurre precise norme per tutelare la parte più debole che è il lavoratore. Ad esempio, l’agenzia può chiedere all’utente solo una quota d’iscrizione, da versare una sola volta, mentre deve essere il datore di lavoro a pagare i servizi dell’agenzia.

 

Il sistema misto. Non sono proibite le agenzie private, cioè le strutture pubbliche, che cercano lavoro ai disoccupati, coesistono con altre private. Secondo alcuni è il sistema migliore perché pubblico e privato si fanno concorrenza, ma anche questa soluzione non è priva di difetti. Col tempo, infatti, essendo più efficienti, le persone si rivolgono alle agenzie private e quelle pubbliche diventano dei “carrozzoni” inutili, uno spreco, in quanto lo Stato continua a mantenere uffici in tutto il territorio nazionale.

 

LA TUTELA DEI LAVORATORI

Lo Stato deve regolamentare l’attività produttiva anche attraverso l’emanazione di leggi, tra cui quelle relative al rapporto di lavoro. In Italia i lavoratori sono tutelati attraverso lo Statuto dei lavoratori, legge introdotta nel 1970, in seguito a un lungo periodo di lotte sociali, per tutelare i diritti fondamentali e inviolabili dei lavoratori.

La prima parte della legge tutela la libertà e la dignità dei lavoratori i quali hanno diritto di manifestare liberamente il loro pensiero, hanno diritto di lavorare in un luogo che non metta in pericolo la loro salute fisica e hanno diritto a essere ricompensati a seconda delle mansioni effettivamente svolte.

La seconda parte dello statuto, in applicazione di principi generali espressi dall’art. 39 della Costituzione, tutela la libertà sindacale. Il datore di lavoro non può discriminare il lavoratore nell’assunzione, nelle mansioni, in trasferimenti, in provvedimenti disciplinari o nella retribuzione per le sue opinioni.

La terza parte dello statuto tutela l’attività sindacale. Il lavoratore ha diritto di svolgere attività sindacale e di riunirsi in assemblea nei luoghi di lavoro.

 

IL CONTRATTO di LAVORO. Al momento dell’assunzione deve essere sottoscritto un contratto di lavoro, che riassume le principali condizioni del rapporto di lavoro. Vediamole in dettaglio:

La Retribuzione. Nel contratto deve essere specificata esplicitamente la retribuzione mensile a cui il lavoratore ha diritto. Ma non bisogna limitarsi solo a questo, bisogna anche smascherare tutti gli espedienti a cui ricorrono gli imprenditori disonesti per non pagare adeguatamente i lavoratori. Uno dei più usati è quello di pagare loro un salario nettamente inferiore a quello dichiarato sulla busta paga. Ad esempio, sulla carta risulta un salario di 1.200 euro al mese, mentre in realtà il lavoratore ne prende soltanto 600. Per ovviare a questo problema si potrebbe obbligare a pagare i salari, non in contanti, ma tramite un istituto di credito.

 

    I contributi sociali. Insieme al salario o allo stipendio al lavoratore devono essere corrisposti i contributi per garantirgli:

L’Assicurazione sanitaria. Ha la funzione di garantire un’assistenza medica al lavoratore e alla sua famiglia.

L’Assicurazione infortuni. Ha lo scopo di tutelare il lavoratore in caso di infortunio sul lavoro o di malattie che causino invalidità temporanea o permanente.

Una pensione per la vecchiaia. Ogni mese il lavoratore mette da parte qualcosa per permettergli una vita decorosa nella terza età o quando non sarà più in grado di lavorare. Questa cifra non deve essere eccessiva, perché può costituire un peso insostenibile per i datori di lavoro, ma neanche irrisoria col risultato di non garantire una pensione adeguata.

 

L’Orario di lavoro. Una delle cose che deve essere ben specificata nel contratto è il numero delle ore settimanali che il lavoratore è tenuto a prestare. Per il lavoro eccedente gli deve essere riconosciuto un compenso straordinario.

Le ferie. Nel contratto deve essere scritto a quanti giorni di ferie all’anno il lavoratore ha diritto.

Le Assenze per malattie. Deve essere garantito il diritto del lavoratore ad assentarsi in caso di malattia, tutelando altresì il datore di lavoro dal diritto a difendersi da lavoratori disonesti e “assenteisti”. Nel contratto deve essere specificato anche le modalità e l’orario in cui il lavoratore può essere sottoposto a visita fiscale.

 

    Tutela della salute e della sicurezza. Sono un gruppo di norme, per fortuna ormai assimilate in tutti i paesi civili, che mirano a tutelare le condizioni psicofisiche dei lavoratori.

Condizioni ambientali. L’imprenditore deve garantire al lavoratore condizioni di lavoro accettabili, deve essere, cioè, assolutamente evitato che il lavoratore sia costretto a lavorare in ambienti molto rumorosi, freddi, umidi o, al contrario, afosi d’estate. Inoltre, non ci devono essere cattivi odori asfissianti, ambienti degradati, sporcizia, topi o insetti. Deve essere evitato qualsiasi ambiente che possa risultare stressante per il lavoratore.

 

Norme di sicurezza. Gli infortuni sul lavoro sono un grave problema, balzato prepotentemente agli onori della cronaca in questi ultimi anni in molti paesi. Nel 2008, in Italia per citare qualche dato, ci sono stati1.200 morti: un vero e proprio bollettino di guerra.

Uno studio ha accertato che le principali cause degli infortuni sul lavorosono:

1 – Lavoro nero, quando gli imprenditori assumono senza nessun contratto, di solito non rispettano nessuna norma.

2 – Inosservanza delle norme di sicurezza. È un caso molto comune nei cantieri edili, dove pur di risparmiare, non si bada minimamente a certe misure.

3 – Lavorare in fretta, sotto pressione dei datori di lavoro. Ad esempio, i portuali del porto di Genova hanno dichiarato a un giornalista del TG2 che non di rado avevano solo 6 ore per scaricare una nave, pena la perdita dell’appalto.

4 – Stress psicofisico, riconducibile a varie cause, come orari di lavoro troppo lunghi, spesso senza neanche una pausa.

5 – Non esiste una cultura della sicurezza, che in parole povere significa individuare tutte le possibilità di incidenti nella propria azienda e studiare misure precauzionali per ognuna. In parole povere bisogna passare per i vari reparti e individuare tutte le possibili cause di incidenti.

6 – Difficoltà economiche. Quando le aziende sono in crisi, ad esempio perché hanno dei costi troppo elevati per competere sui mercati internazionali, per sopravvivere tagliano su tutto, compreso la sicurezza.

7 – Subappalti. Imprese costrette a lavorare con il coltello alla gola e strangolate da quelle grandi.

8 – Immigrazione clandestina. Chiaramente il disperato che arriva sulle nostre coste senza documenti è il candidato ideale per i lavori pericolosi e senza regole. Il rimedio sono i controlli, che spesso mancano, o le sanzioni che non di rado non vengono applicate, o sono troppo lievi per impensierire i datori di lavoro.

 

    IL LAVORO PRECARIO. I contratti a tempo determinato in Italia sono stati introdotti alcuni anni fa dal governo Berlusconi, prima occupavano solo una fascia marginale. È vero che c’era bisogno di nuove regole per rendere meno rigido il mercato del lavoro, ma si è aperto a forme di sfruttamento e, talvolta, di schiavismo.

Ci sono delle aziende in Italia che ogni due anni cambiano i dipendenti per assumere nuove persone e godere delle agevolazioni previste dalla legge. Ormai la maggioranza delle aziende assume con contratti semestrali che rinnovano ogni volta a pochi giorni dalla scadenza. In questo modo i giovani non solo non possono progettare per il loro futuro, pensare di sposarsi, di comprare una casa contraendo mutuo ecc., ma sono soggetti al continuo ricatto. In pratica o assicurano ritmi di lavoro elevati, una produttività molto alta o sono disponibili a lavorare anche oltre l’orario e in alcuni giorni festivi o possono essere licenziati in qualsiasi momento.

 

Il lavoro precario è utile solo in un caso, nel primo anno, al massimo nel secondo per permettere al datore di lavoro di vagliare le capacità e l’impegno del lavoratore. Oltre questi casi diventa una forma di sfruttamento. Le misure più idonee per contrastare questo fenomeno sono:

Far pagare un salario superiore a coloro che assumono con contratti semestrali. Cioè chi vuole lavoratori precari deve essere pronto a pagarli di più, mentre bisogna prevedere delle riduzioni sia per quanto riguarda i contributi che il salario, per coloro che assumono a tempo determinato.

Un’altra misura abbastanza efficace è quella di fissare dei limiti. Ad esempio, in alcune mansioni il datore di lavoro è obbligato dopo 2 anni, a trasformare il contratto in un rapporto a tempo indeterminato.

 

LE PATOLOGIE DEL SISTEMA

Il politologo non deve limitarsi soltanto a dare delle indicazioni ma deve essere in grado di individuare eventuali distorsioni in cui possono incorrere i sistemi economici in modo da mettere in guardia i governanti. In questo caso l’esperienza storica ci ha insegnato che le più frequenti sono:

1- Eccessivo numero di contributi. Sulla busta paga non ci deve essere nessun altro tipo di contributo oltre i 3 su menzionati, altrimenti si aggrava eccessivamente il costo del lavoro rendendo così le aziende nazionali meno competitive sui mercati internazionali.

 

2 – Contributi troppo alti. In linea di massima contributi e imposte devono gravare sul salario non più del 30% della retribuzione. Se, ad esempio, il lavoratore percepisce un mensile di 2.000 euro mensili, le trattenute non possono andare oltre 600 euro (per gli oneri sociali). In caso contrario, diventano un peso insostenibile, favorendo l’evasione e il lavoro nero.

 

3 – Contributi insufficienti. È il caso contrario, nel nostro paese riguarda soprattutto i lavoratori autonomi che a volte dichiarano un reddito inferiore a quello di un operaio. Pagando dei contributi irrisori, l’Istituto previdenziale, va, poi, in crisi. Devono essere stabilite delle tariffe minime per ogni categoria. Unica eccezione deve essere fatta solo per coloro che svolgono apprendistato. In questo caso, i contributi devono essere minimi per favorire l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro. Devono essere, però, fissati dei severi limiti, in particolare nessuno può fare l’apprendistato per più di due anni. Per le professioni più semplici, poi, come cameriere in un ristorante, l’apprendistato può essere ridotto a un anno.

 

    4 – Lo schiavismo. La riduzione in stato di schiavitù è un fenomeno ancora presente in alcuni paesi avanzati. Si verifica quando lo sfruttamento supera certi limiti. Ad esempio quando si costringe l’operaio a lavorare più di 10 – 12 ore al giorno (da questa regola bisogna escludere lavori particolari, come i guardiani notturni) senza nemmeno il giorno libero. Per questo reato deve essere previsto il carcere. Se si tratta di imprenditori stranieri, deve essere tolto loro il permesso di soggiorno o la cittadinanza e devono essere espulsi. Non deve essere permesso loro di ricominciare da un’altra parte.

 

I SALARI MINIMI

    È un’altra questione aperta che tuttora fa discutere gli economisti. Ci sono coloro che ritengono che non solo hanno un’indubbia funzione sociale, ma sono anche utili ai fini del sistema economico. Altri, invece, sostengono che questo provvedimento provoca elevati tassi di disoccupazione, in quanto milioni di lavoratori, soprattutto giovani o i meno produttivi, non troveranno mai un lavoro. Vediamo le due posizioni a confronto.

 

Vantaggi. L’indubbio vantaggio del salario minimo è quello di garantire alle famiglie un livello di retribuzione che permette un tenore di vita accettabile. In caso di un tasso di disoccupazione molto elevato e di forte crisi economica, infatti, i datori di lavoro, possono approfittare della situazione per imporre retribuzioni che non sono sufficienti nemmeno per comprare i beni indispensabili per sopravvivere.

Come sostengono giustamente molti economisti gli imprenditori possono scaricare sui dipendenti le loro difficoltà economiche. Se ad es., è un periodo di crisi e i profitti sono bassi, riducono i salari, dilatano l’orario di lavoro, trascurano le norme di sicurezza ecc… Non di rado esigono ritmi di lavoro da robot. Ad es., come denunciò nel 2007 la trasmissione Report, ai lavoratori di una cooperativa per i supermercati GS fu richiesto di piegare 180 scatole di cartone all’ora: un ritmo di lavoro adatto a un robot non a un uomo.

L’altro grosso vantaggio della presenza dei salari minimi è che mantengono elevata la domanda di beni e quindi i consumi. Se il lavoratore guadagna appena di che sfamarsi, infatti, deve limitare al massimo i suoi consumi, e quindi può far entrare l’economia in recessione.

Il terzo vantaggio è che i salari minimi spingono verso l’alto anche i salari ai livelli superiori, cioè delle persone specializzate, ciò ha benefici per tutta l’economia in quanto aumenta i redditi e i consumi.

Per quarto, la storia economica lo ha dimostrato che non sempre carenza di manodopera significa salari più alti. Ad esempio nelle zone turistiche della Thailandia, nel 2014, nonostante il tasso disoccupazione fosse al di sotto del 3% e molti albergatori o ristoratori non riuscissero a coprire i vuoti, i salari restavano fermi a 10.000 Baht al mese. La maggior parte degli imprenditori rinunciavano ad assumere nuove persone piuttosto che pagarle di più.

 

Svantaggi. Il difetto più evidente è stato già evidenziato: possono essere causa di disoccupazione. Gli imprenditori se ritengono i salari minimi siano troppo alti, possono rinunciare ad assumere e spesso ad ampliare la propria attività. Questo problema è superabile fissando il salario minimo a livelli non troppo elevati.

    Nei paesi in cui le leggi sul lavoro non vengono fatte rispettare in modo severo, poi, ci registra una seconda conseguenza, del tutto prevedibile: il lavoro in nero. Secondo fonti ufficiali, nel 2.006, in Italia c’erano centinaia di migliaia, se non milioni, di lavoratori impiegati in aziende che corrispondevano salari inferiori al minimo legale e che non provvedevano al pagamento dei contributi assistenziali e previdenziali.

Questo problema è superabile con dei controlli continui sulle aziende, d’altronde i datori di lavoro, se possono, assumono in nero anche se non esistono i salari minimi.

Il terzo svantaggio della presenza di salari minimi è costituiscono un ostacolo per l’assunzione delle categorie meno produttive o dei giovani più inesperti. Questo problema è superabile costituendo dei contratti specifici per l’apprendistato o per coloro che non sono in grado di mantenere degli elevati ritmi di lavoro (costituire delle categorie protette).

 

    Orario di lavoro e ferie. È un altro aspetto che va tutelato: l’orario di lavoro, che non deve eccedere mai le 9 ore giornaliere (al massimo 10 ore per alcune mansioni, come guardiano notturno). Come pure deve essere obbligatorio un periodo di ferie ogni anno. In certi paesi come la Tailandia (2014) molti lavoratori non avevano mai un periodo di ferie, non solo ciò peggiorava la qualità della loro vita, ma impediva che si svilupparsi un forte turismo interno. In pratica la maggior parte dei Thailandesi, anche se aveva i soldi, non aveva mai un paio di settimane libere per visitare rinomate località turistiche.

   

LA TUTELA degli IMPRENDITORI

Nel passato si è pensato a tutelare soprattutto i lavoratori e ciò era giusto, in quanto era la parte più debole, però è giunto il tempo che si varino precise norme anche per salvaguardare gli interessi dei datori di lavoro. Se il lavoratore ha diritto, infatti, a un giusto salario, a un orario di lavoro ben definito e alle altre cose che abbiamo visto nei punti precedenti, l’imprenditore ha il diritto di pretendere che i lavoratori svolgano con la dovuta perizia e impegno il lavoro loro assegnato. In altri termini i lavoratori devono garantire un’elevata produttività.

In alcuni paesi, come l’Italia, infatti, nel dopoguerra si è passati da un eccesso all’opposto con l’introduzione di leggi ipergarantiste.

Il risultato è stato un aumento del costo del lavoro che hanno reso meno competitive le nostre merci sui mercati internazionali e hanno spinto molti imprenditori a delocalizzare le loro aziende nei paesi emergenti. Ad esempio, i sindacati da noi in passato erano usciti a strappare delle norme di tutela del lavoratore che in pratica rendevano impossibile il licenziamento anche quando quest’ultimo non svolgeva col dovuto impegno il suo lavoro o era inadatto alla mansione che gli era stata affidata, cosicché si diceva che era più facile liberarsi di una moglie col divorzio, che di un dipendente.

 

Vediamo in che modo possono essere tutelati gli interessi dei datori di lavoro:

    Libertà di assumere. Bisogna garantire agli imprenditori piena libertà di scegliere i propri dipendenti. Se sono costretti, ad es., ad assumere attingendo dagli elenchi dell’ufficio di collocamento, facilmente preferirà non assumere o ricorrerà ad escamotage per poter aggirare questa norma. In effettila piena discrezione in materia di assunzione è uno dei cardini fondamentali per dare competitività alle aziende e renderle sane ed efficienti.

 

Licenziamento per giusta causa. Se si vuole mantenere alta la produttività, essere competitivi e rendere le aziende in grado di reggere la selvaggia concorrenza internazionale bisogna garantire al datore di lavoro il diritto di liberarsi di chi non ha voglia di lavorare, di chi si assenta spesso per futili motivi, arriva sempre in ritardo, di chi non sa fare il suo lavoro o di chi svolge “traffici illeciti” nell’azienda ecc., insomma di chi svolge con negligenza il proprio lavoro. In altre parole deve essere permesso al datore di lavoro di licenziare per giusta causa; da documentare, ovviamente, con prove evidenti, come video, testimonianze ecc.. Occorre, infatti, evitare anche l’eccesso opposto: che il datore di lavoro si sbarazzi capricciosamente di un dipendente (ad es. che si liberi di una bella donna che non ha voluto cedere ad avance sessuali).

 

L’eccessiva conflittualità sindacale. Un altro obiettivo da perseguire è quello di evitare il formarsi di un eccessivo contenzioso tra lavoratori e datori di lavoro. Se ogni imprenditore ha 5 o 6 cause di lavoro in corso con ex-dipendenti, il costo del lavoro può diventare insopportabile.

Per questo è bene che la materia sia precisata da norme chiare e semplici, che indichino diritti e doveri. In questo modo le dispute saranno minime. In ultimo, bisogna prevedere anche delle norme che proteggano il datore di lavoro da infiltrazioni di estremisti di estrema sinistra (o di estrema destra) che, non solo esasperano la conflittualità all’interno della fabbrica, ma in casi estremi arrivano a sabotare le attività dei padroni, perché odiano i capitalisti e il sistema. Nel passato ci sono stati casi del genere (molte di queste persone, poi, sono diventate terroriste).

 

LA DISAFFEZIONE AL LAVORO

Era un fenomeno quasi sconosciuto nel passato, quando bisognava lavorare per forza perché non si concepiva che qualcuno se ne potesse stare a casa (almeno che non fosse gravemente invalido), e non contribuisse al reddito della famiglia. Oggi non riguarda solo i paesi industrializzati occidentali, ma è frequente anche in molti paesi in via di sviluppo. Mentre è più raro in paesi come Giappone, che hanno in gran parte costruito la loro fortuna economica proprio sull’attaccamento al lavoro.

Una certa percentuale di popolazione che non ama lavorare o preferisce fare lavori facili, se mai per strada, è fisiologica. Esiste anche nelle società più opulenti, come negli USA o in quei paesi dove c’è piena occupazione.

 

È una problematica che in parte dipende dalle cause, vediamo quelle più comuni:

    I sussidi di disoccupazione. In molti casi, il problema è causato proprio dallo Stato assistenziale. In Germania nel 2002 un disoccupato che se ne restava casa prendeva € 1.200 di sussidio, mentre se andava a lavorare € 1.600. Valeva la pena rompersi la schiena 8 ore in fabbrica per sole € 400 in più? In Australia molti disoccupati si erano organizzati. Ad esempio, due coppie senza figli si prendevano un appartamento in affitto dividendo le spese. Ognuno di essi aveva il sussidio di disoccupazione, così in quella casa c’erano ben 4 sussidi, abbastanza per sbarcare il lunario senza troppi affanni. La mattina, invece, di andare in fabbrica, se ne andavano a fare windsurf.

 

Le assunzioni clientelari. Spesso all’origine della disaffezione al lavoro c’è il clientelismo, infatti i raccomandati, di solito, hanno poca voglia di lavorare. Sanno che il loro posto è dovuto a meriti politici, quindi contano su questa protezione anche nel caso siano poco produttivi. Hanno effetti simili anche le assunzioni in aziende costituite per alleviare il problema della disoccupazione, in Italia “i lavori socialmente utili”, in quanto spesso si tratta di lavori facili, svolti con ritmi blandi.

È chiaro che, una volta conclusa questa esperienza, queste persone hanno difficoltà ad adattarsi a lavori veri, con ritmi di produzione elevati. Se la gente impara che non è necessario sudare molto, può diventare indisponibile per il lavoro vero. Allo stesso modo chi ha fatto il parcheggiatore per anni, prendendo i soldi dagli automobilisti seduto comodamente su una sedia all’entrata dell’area di parcheggio, non tornerà mai a lavorare la terra o a fare l’operaio in fabbrica.

 

Lo Stato sociale. Molti strumenti, perciò, studiati per assistere le fasce sociali più deboli si trasformano in un boomerang, diseducando al lavoro. Molte persone non solo si adagiano nella propria condizione di disoccupati, ma sviluppano schemi mentali per cui pretendono che la società dia loro da vivere. Si convincono che deve essere la società a prendersi cura di loro. Il rimedio in questi casi è proprio una riduzione dello Stato sociale o meglio di quegli strumenti che non invogliano il lavoratore a cercarsi un lavoro. In Germania, ma anche in altri paesi avanzati, per invogliare i lavoratori ad accettare anche lavori meno pagati si è introdotta “l’imposta negativa sul reddito”, che è un’integrazione che lo Stato corrisponde in modo da consentire loro di percepire un salario normale anche se lavorano meno ore la settimana. Ci torneremo nei prossimi capitoli.

 

    Dipendenti con problemi mentali. Chi soffre di disordini mentali o è alcolizzato, di solito è anche poco motivato al lavoro. Se si tratta di persone con personalità antisociale bisogna spingerle ad intraprendere un percorso terapeutico, seguiti da psicologi delle ASL. In effetti, la soluzione di questi casi, almeno teoricamente, è semplice: bisogna curare queste persone affinché riacquistino l’idoneità fisica e psichica al lavoro. Per recuperarle, però, bisogna pensare per loro a lavori facili, con orari ridotti, svolti in condizione protette.

Nel caso, invece, si tratta di persone che intendono vivere di espedienti o di Stato sociale, bisogna convocarli e far capire loro che non possono andare avanti sempre così, che in questo modo non avranno mai una sicurezza economica. Anche per queste persone si può pensare, almeno all’inizio, a lavori con orari ridotti (6 ore al giorno) e ritmi di produzione più blandi (e ovviamente salari ridotti).

Lo Stato o gli enti locali non devono restare indifferenti davanti al fatto che tante persone non abbiamo un lavoro per anni, quasi non fosse un affare loro. Se non sono i lavoratori a rivolgersi agli uffici collocamenti, devono essere questi ultimi a contattarli. Se le risorse non sono sufficienti per tutti, si procederà con un gruppo alla volta. Lo scopo da raggiungere, comunque, è quello di contrastare un fenomeno, altamente negativo per la società, come quello della disaffezione al lavoro.

 

L’ASSENTEISMO

La mattina il lavoratore per un banale raffreddore o perché quel giorno non ha voglia di andare a lavorare o ha altro da fare, telefona in azienda e comunica di essere ammalato. Medici compiacenti, poi, certificheranno malattie che non ci sono mai state o aggraveranno situazioni risolvibili con un’aspirina. L’assenteismo aumenta sensibilmente il costo del lavoro (secondo calcoli in Italia nel 2005 costava circa 14 miliardi di euro all’anno), costringe gli imprenditori a fare acrobazie per sostituire le persone assenti e, spesso, mette in crisi la catena produttiva, creando nello stesso tempo confusione e disaffezione al lavoro.

 

    Le misure più comuni usate per scoraggiare questo fenomeno sono:

Visite fiscali. Un medico controlla che il lavoratore stia a casa ed è effettivamente malato. Talvolta però queste visite vengono fatte in maniera superficiale o formale. In pratica il medico si limita a verificare che il lavoratore sia in casa negli orari prestabiliti, per questo non sempre è sufficiente a scoraggiare gli assenteisti. Occorre invece che il medico visiti il paziente ed inviti, se ha dei dubbi, a fare nuovi accertamenti diagnostici in strutture pubbliche.

 

Intralci burocratici. Un’altra strategia che si è rivelata abbastanza valida per contrastare il fenomeno dell’assenteismo è predisporre complicazioni burocratiche per chi si assenta dal lavoro. Se il lavoratore, ad esempio, è costretto a fare il certificato medico in tre copie e mandarne una alla ASL, una al datore di lavoro e una alla Regione, spesso eviterà di prendersi dei giorni per malattia.

 

Deterrente economico. È uno dei metodi più efficaci per scoraggiare l’assenteismo, anche se significa penalizzare anche i malati veri. Se al lavoratore che si assenta viene fatta una trattenuta del 10 – 20% sulla paga giornaliera. Il lavoratore, sicuramente, per non perdere molti soldi, rimarrà a casa soltanto quando è costretto.

 

Indagini di polizia. È il metodo usato per individuare gli assenteisti “cronici”, cioè per coloro che usano vari sotterfugi per assentarsi sistematicamente dal lavoro. Ad es., se l’impiegato statale che manda il certificato medico da una nota località sciistica, sostenendo di essersi slogato una caviglia, viene poi fotografato mentre scende da una pista, deve essere denunciato per truffa.

 

    I premi di produzione. È uno dei metodi migliori, al momento del rinnovo del contratto di lavoro una parte dell’aumento viene data sotto forma di premio di produzione, che si perde in caso di assenza dal lavoro. Ad esempio, per ogni giorno di malattia si perde una somma introno al 15% della retribuzione giornaliera. È un sistema che non penalizza eccessivamente il lavoratore se è malato, ma costituisce un deterrente per non farlo restare a casa.

 

IL LICENZIAMENTO

Esistono due posizioni opposte. Quella americana dove è possibile licenziare un lavoratore su due piedi, semplicemente pronunciando la celebre frase che spesso sentiamo nei film americani: “Lei è licenziato”.

All’estremo opposto c’è la legislazione italiana, ci riferiamo soprattutto al regime vigente alcuni anni fa, in cui non era facile licenziare un dipendente nemmeno quando questo fosse negligente e poco produttivo. Da noi tra gli imprenditori circolava lo slogan che era più facile liberarsi della moglie, che di un operaio.

A nostro avviso si tratta di due posizioni estremiste, entrambe da evitare. In un paese moderno, tecnologicamente avanzato, non deve essere troppo facile licenziare, in modo da scoraggiare il datore di lavoro a liberarsi dei dipendenti in modo arbitrario e capriccioso, ma neanche impossibile. La cosa giusta, chiaramente, sarebbe permettere il licenziamento soltanto per giusta causa. È una norma che già esiste in Italia, purtroppo, è difficile da applicare. I nostri imprenditori trovano piuttosto difficile dimostrare davanti al giudice comportamenti poco produttivi.

In ogni caso bisogna predisporre delle misure di garanzia per il lavoratore che sta per perdere il posto di lavoro, ad esempio l’imprenditore deve dargli un preavviso almeno di 3 mesi (così da dargli la possibilità di cercarsi un altro lavoro) e pagargli una penale (ad esempio una liquidazione pari a 3 mensilità). Ulteriori 6 mesi di salario il lavoratore li deve ricevere dalla cassa integrazione, in questo modo ha abbastanza tempo per cercarsi un altro lavoro.

 

Quasi tutti i paesi, compreso l’Italia, invece permettono il licenziamento in questi casi:

    Sopraggiunta inidoneità al lavoro. Se il lavoratore non è più in grado di svolgere adeguatamente il suo lavoro, come una persona, che lavora al call center, che diventa ipoudente, l’azienda deve poterlo sostituire. In questi casi, però, bisogna prevedere degli ammortizzatore sociali o il passaggio del lavoratore ad altri lavori o a categorie protette; nei casi più gravi, concedere loro pensioni di invalidità.

    Aziende in crisi. In questo caso è inutile evidenziare che se non si dà la possibilità all’impresa di ridurre i costi, andrà al fallimento. Chiaramente è giusto prevedere ammortizzatori sociali come la cassa integrazione, in modo da”parcheggiare” il lavoratore finché l’azienda non è in grado riprenderselo o trova lavoro altrove.

 

LO SCIOPERO

Col termine sciopero si intende l’astensione dal lavoro di un gruppo di lavoratori a sostegno di una rivendicazione. È attuato prevalentemente da lavoratori organizzati e rappresenta una delle forme più importanti e incisive di lotta sindacale. I lavoratori possono impegnarsi in uno sciopero o in altre forme di agitazioni sindacali per ottenere miglioramenti delle condizioni di impiego (ad esempio salari più elevati o riduzioni dell’orario di lavoro), per impedirne un peggioramento (ad esempio, una diminuzione dei salari) o, ancora, per evitare che il datore di lavoro conduca delle azioni lesive dei diritti dei lavoratori (ad esempio, il licenziamento senza una giusta causa) ecc..

Oltre a questi casi, che possiamo definire da rivendicazione sindacale, esistono anche altri tipi di sciopero:

Lo sciopero politico è un mezzo per costringere un governo ad aderire a determinate richieste dei lavoratori e può costituire un’arma per provocarne la caduta.

Lo sciopero di solidarietà ha, invece, luogo quando un sindacato arresta le attività lavorative di un settore per sostenere la protesta di un altro sindacato o di altre categorie sociali.

Lo sciopero “generale”, in cui tutti i lavoratori di una città, di una regione o di un paese scioperano contemporaneamente, per perseguire finalità di tipo economico o politico. Con lo sciopero generale si ottiene la completa paralisi dell’attività economica dell’area interessata.

 

Aspetti positivi. Lo sciopero è stato considerato per molto tempo una grave minaccia, non solo per l’impresa, ma anche per gli interessi delle classi al potere e per la stabilità delle istituzioni, e per questo è stato a lungo contrastato. Solo a partire dalla seconda metà del XIX secolo, i lavoratori, attraverso una lunga battaglia, iniziarono a ottenerne la depenalizzazione. È un’arma, infatti, che non presenta solo lati negativi. Se usata con responsabilità può portare dei benefici non solo per i lavoratori, ma anche per la società e per l’economia; se strumentalizzata può portare caos, disordini, persino aprire la strada a una dittatura o costituire l’antefatto di una guerra civile.

 

I benefici principali che lo sciopero può portare sono 3, ma tutte e tre molto importanti:

1 – Miglioramenti economici e delle condizioni di lavoro. In effetti è l’unica arma che hanno i lavoratori per far valere i propri diritti. Senza diritto di sciopero non saremmo mai arrivati alle giornate lavorative di otto ore o a retribuzioni adeguate ai costi della vita.

2 – Aumento della domanda interna. Il miglioramento dei salari paradossalmente si è rivelato un grande vantaggio per i capitalisti, perché stimola la crescita economica aumentando la domanda interna. Pagando di più i lavoratori, si ottengono una maggiore richiesta di beni di consumo e ciò, quindi, da un forte impulso allo sviluppo dell’economia.

3 – Migliore distribuzione della ricchezza. Una volta, ad esempio erano soltanto i padroni a potersi permettere l’automobile, oggi anche l’operaio. È innegabile che le lotte sindacali abbiano aiutato a ridurre le disuguaglianze sociali.

 

    Gli aspetti negativi. Lo sciopero ha anche gravi aspetti negativi e può causare pesanti danni al sistema economico, in effetti, costituisce uno “spreco”. Un industriale di fronte a una maestranza organizzata e bene agguerrito può fare ben poco: o cedere o resistere, spesso con risultato di perdere somme enormi.

Si pensi a quanti milioni, il giorno perde una fabbrica di automobili ferma. Per non parlare di quei settori, come la sanità, in cui non esistono contromisure per contrastare le rivendicazioni sindacali se non il buon senso. Se, ad esempio, un giorno i medici ospedalieri scendessero compatti in sciopero chiedendo il raddoppio del loro stipendio, e fossero determinati ad andare avanti ad ogni costo, non si può fare altro che cedere. Il risultato sarebbe un aumento insopportabile dei costi sanitari.

Lo sciopero è un’arma che si presta facilmente a essere usata per motivi politici. Non di rado gli estremisti l’hanno utilizzato al solo scopo di creare caos e confusione o per mettere in difficoltà il governo in carica. Lo sciopero dei camionisti nel 1973 mise in ginocchio il regime democratico del presidente Allende in Cile.

 

Esiste, poi, un altro effetto poco conosciuto. Il diritto di sciopero, se da una parte è riuscito a incrementare il reddito della classe operaia, da un’altra ha creato forti diseguaglianze economiche tra classi sociali “forti” e classi “deboli”. Le prime sono costituite dai lavoratori che operano in settori vitali ed essenziali e perciò il loro sciopero è molto temuto. Ad esempio, i camionisti solo una classe sociale forte, perché il loro sciopero può mettere in ginocchio una nazione in poche settimane. Un’altra categoria forte sono i medici ospedalieri, anche in questo caso i politici cercano in tutti i modi di scongiurare una loro mobilitazione.

Le classi deboli, invece, sono quelle che operano in settori secondari e per questo il loro sciopero non è eccessivamente temuto. Ad esempio, lo sciopero di un giorno nella scuola è solo un’occasione di vacanza per i ragazzi. Per questo motivo gli insegnanti hanno retribuzioni mediamente più basse degli altri impiegati statali. Tutto ciò, col tempo, ha portato all’allargamento della forbice retributiva tra queste categorie, creando disuguaglianze. In effetti oggi le classi sociali forti, cioè ben organizzate e con ampie possibilità di “ricatto”, guadagnano in media molto più di quelle scarsamente sindacalizzate o non temute dai politici.

 

REGOLAMENTARE IL DIRITTO di SCIOPERO

Il buon senso vorrebbe che il lavoratore usasse il diritto di sciopero con moderazione e quanto sono fallite tutte le altre strade, ma non sempre si rispetta questa regola o non tutte le persone sono così mature da mettere in atto misure di autocontrollo. Il primo scopo, perciò, di una legge che voglia regolare questo diritto è evitare che lo sciopero causi eccessivi danni al sistema economico e grosse perdite finanziarie per le aziende, spingendo gli imprenditori a delocalizzarle all’estero. Lo sciopero, perciò, deve essere considerato un fallimento del sistema e un grave danno per l’apparato produttivo. Per questo motivo occorre prendere tutte le misure per evitare che si arrivi a forme estreme di lotta, come scioperi a oltranza. È lo scopo principale delle norme che regolamentano il diritto di sciopero, che ormai esistono in quasi tutti paesi avanzati.

Queste le misure più efficaci:

    Il tavolo delle trattative. I lavoratori possono astenersi dal lavoro solo dopo avere esperito tutti gli altri mezzi disponibili, il che significa dopo che il datore ha rifiutato le loro richieste. Mentre non deve essere assolutamente permesso di scioperare prima che ci sia stato un tavolo di trattative.

 

Preavviso. Devono essere vietati scioperi selvaggi e improvvisi, si pensi a passaggi a livello lasciati incustoditi o ai viaggiatori lasciati dalle ferrovie in mezzo alla campagna. Per ogni categoria deve essere indicato un periodo minimo di preavviso, che mediamente non deve essere inferiore a 3 giorni. Gli utenti devono sapere in anticipo, in modo da organizzarsi per superare i disagi che l’astensione dal lavoro di una categoria comporta.

 

I servizi essenziali. È una norma che per fortuna si può considerare ormai recepita in quasi tutti gli Stati moderni. Chi sciopera non può assolutamente bloccare servizi fondamentali come quelli connessi alla salvaguardia della salute e della vita umana, con riferimento agli ospedali, all’erogazione dell’energia elettrica, ai mezzi di soccorso, ai vigili del fuoco ecc.. La legge, però in questi casi, dovrebbe essere molto precisa e specificare quali sono i servizi essenziali e in che misura vanno garantiti.

 

Forme di sciopero gratuite. Non devono essere permesse forme di lotta che non comportano alcuna trattenuta sulla busta paga, altrimenti il lavoratore sarà invogliato a ricorrervi spesso, in quanto “non perde niente”. Il ferroviere che ritarda la partenza di un treno di mezz’ora causa disagi e danni economici enormi all’azienda mettendo in crisi il sistema, senza però aver alcuna trattenuta sulla busta paga. Lo sciopero, invece, deve essere oneroso e comportare una “perdita economica” per chi lo fa, in modo che vi ricorra solo quando è strettamente necessario. Si può anche permettere queste forme di sciopero però l’azienda può fare la trattenute sulla busta paga come il dipendente avesse scioperato un giorno.

 

    Scioperi individuali. Il singolo lavoratore non può decidere in modo autonomo di scendere in sciopero. Non è possibile che poche persone, male intenzionate, possano bloccare l’attività produttiva di una grande azienda.

Lo sciopero a maggioranza. In alcuni settori non deve essere previsto lo sciopero parziale, in altre parole o scioperano tutti o nessuno. Si fa un’assemblea e dopo una discussione, si vota. Se la maggioranza decide per l’astensione si proclama lo sciopero, altrimenti si lavora. In certi settori poche persone al lavoro non servono a niente, in quanto per mandare avanti l’attività produttiva c’è bisogno di tutti. Non sono pochi coloro che sostengono che questo metodo andrebbe esteso a ogni settore. In effetti, i sindacati possono essere dominati da estremisti di sinistra, perciò è giusto che a decidere sia la maggioranza. Per questo motivo, uno sciopero può essere proclamato dopo un’assemblea e una votazione segreta, solo se il 51% si esprime a favore. In parole povere, è la maggioranza, spesso silenziosa, che deve decidere e non dieci teste calde, se mai estremisti di sinistra.

 

Le proposte dei datori di lavoratori. I lavoratori spesso hanno un sola fonte di informazione sulle trattative per il rinnovo del contratto di lavoro: i loro sindacati. In effetti ascoltano una sola campana, che non sempre è obiettiva ed imparziale. Occorre bisogna invece dare l’opportunità ai datori di lavoro di rivolgersi direttamente ai lavoratori. In altre parole anch’essi devono poter utilizzare le ore previste dalla legge per tenere assemblee sindacali, in cui informare i lavoratori delle loro proposte per il rinnovo del contratto e delle loro motivazioni. In altre parole i sindacati non devono essere l’unico interlocutore dei lavoratori, anche i datori di lavoro devono avere il diritto a far sentire le loro ragioni.

 

    Norme settoriali. Oltre a queste indicazioni di carattere generale andrebbero studiate altre misure settore per settore, in modo da precisare bene per ognuno di essi le modalità di sciopero. Ogni “comparto” è particolare, perciò, ci devono essere delle norme categoria per categoria. Ad esempio, i camionisti non possono scioperare tutti insieme, almeno il 30% di essi deve garantire gli approvvigionamenti indispensabili ai cittadini. Se essi non fanno giungere in città viveri o medicinali, possono ridurre alla fame la popolazione o, addirittura, provocare l’insorgere di un’epidemia.

 

GLI SCIOPERI GENERALI. Anche questo tipo di sciopero deve essere regolamentato con precise norme per evitare che si trasformino in disordini, violenze o insurrezioni, sotto la regia di poche menti occulte. È uno dei modi che in passato hanno usato alcuni dittatori per andare al potere. Ad esempio, deve essere vietata ogni manifestazione non pacifica. Se gli scioperanti incominciano ad assaltare banche o stazioni radio-televisive, bisogna far intervenire le forze dell’ordine. La violenza, in tutte le sue forme, deve essere bandita dalle strade.

 

Il diritto di manifestare pacificamente. In una vera democrazia deve essere garantito il diritto dei cittadini di protestare in modo pacifico. Se le persone scendono pacificamente in piazza con dei cartelloni, ma non fanno niente di male e non si rendono colpevoli di azioni violente non si può far intervenire la polizia per disperderli. In una vera democrazia forme pacifiche di protesta devono essere permesse senza alcuna autorizzazione o permessi speciali della polizia, altrimenti basterà negarli e si metterà a tacere l’opposizione. Queste cose sono comuni nei regimi autoritari.

Le cose cambiamo completamente se i manifestanti occupano la ferrovia, l’autostrada, ecc., in tal caso si può per intervenire per impedire l’interruzione di pubblici servizi. Inoltre, una volta che il governo ha accettato di dimettersi e indire nuove elezioni, non deve essere permessa alcuna forma di manifestazione fino a che il nuovo governo non si è insediato al potere. Come pure se i datori di lavoro accettano le richieste dei lavoratori questi ultimi devono sospendere subito ogni forma di lotta, altrimenti possono essere licenziati.

 

Attivisti stranieri. Devono essere arrestati e poi espulsi dopo esser stati dichiarati indesiderati. Non si deve permettere che i black bloc facciamo venire estremisti violenti dall’estero per mettere a ferro e fuco una città come hanno fatto più volte in Italia (Milano expo 2015). Deve essere proibito a persone estranee di partecipare a manifestazioni.

 

I SINDACATI

Sono associazioni di lavoratori costituite per tutelare gli interessi dei propri iscritti e, come parte sociale, partecipare con il governo e con i rappresentanti degli imprenditori alla definizione delle scelte su questioni di interesse pubblico relative al mondo del lavoro. Nella tradizione britannica, come pure in quella tedesca e scandinava, hanno svolto un notevole ruolo di mediazione tra mondo del lavoro, governo e imprenditori, a volte partecipando direttamente alla gestione delle imprese; in altri paesi come Italia e Francia, i sindacati hanno assunto una maggiore connotazione politica e, per lungo tempo, sono stati uno strumento di lotta anticapitalistica e rivoluzionaria, nei regimi totalitari, ad esempio nell’Italia fascista. Negli ultimi due decenni, i sindacati, almeno nei paesi industrializzati, hanno assunto un ruolo più incisivo nelle scelte politiche.

Oggi, infatti, sempre più spesso sono coinvolti nelle decisioni che riguardano fatti di interesse economico e sociale, partecipano all’elaborazione del diritto del lavoro o gestiscono direttamente settori della previdenza sociale.

I sindacati possono associare lavoratori dipendenti o autonomi e di solito sono organizzatiper “categorie” (ad esempio metalmeccanici, tessili, chimici, operatori della scuola ecc.) divise nei settori privato e pubblico e poi riunite in “confederazioni nazionali”. Il movimento sindacale italiano, nato su basi prettamente politiche, è stato per lungo tempo strettamente legato ai partiti (ad esempio la CISL, a prevalenza cattolica, alla Democrazia Cristiana; la UIL, a prevalenza laico socialista, ai partiti socialista e socialdemocratico; la CGIL, la confederazione più a sinistra, al Partito comunista e, in misura minore, ai socialisti). Poi sono diventati più indipendenti, oggi la maggioranza di essi si dichiara non schierata politicamente.

L’atteggiamento nei riguardi dei sindacati varia tra chi (come molti imprenditori) li ritiene un “danno” per il sistema economico e sostiene che portano alla rovina le imprese e chi è convinto che abbiano una funzione utile e svolgono un ruolo fondamentale nelle moderne democrazie. Entrambe sono posizioni estremiste ed errate, i sindacati sono importanti perché difendono gli interessi dei lavoratori e promuovono il miglioramento delle loro condizioni di vita. Ciò che bisogna evitare sono gli eccessi, ad es. che danneggino economicamente l’azienda con una serie di scioperi selvaggi, o, addirittura, che finiscano nelle mani di estremisti politici. Per questo motivo lo stato non deve disinteressarsi del tutto di ciò che succede in queste istituzioni democratiche.

 

    Libertà di gestione. Le posizioni, in questo caso, variano tra chi vuole lasciare completa libertà ai sindacati di organizzarsi e li considera un “affare privato” dei lavoratori, in cui lo Stato non deve entrarci per niente, e chi sostiene, invece, che sono degli enti pubblici e perciò vanno regolamentati per evitare abusi, ad esempio che finiscono nelle mani di gente senza scrupoli.

L’esperienza ci ha insegnato che la posizione più giusta è la seconda. Non solo in Italia, ma in tutto il mondo nel passato si sono verificati casi di strumentalizzazioni. Si pensi soltanto che negli anni ‘60 molti sindacati negli Stati Uniti erano controllati dalla mafia. In Cile, come abbiamo detto, il sindacato dei camionisti nel 1973 fece cadere un governo democratico, liberamente eletto. In altri casi, i sindacati sono finiti nelle mani di estremisti di sinistra. Ad esempio, in Francia negli anni Settanta, si sviluppò un vero e proprio movimento sindacalista-rivoluzionario, sotto l’influenza di Pierre-Joseph Proudhon. Egli elaborò un programma in cui il sindacato rivestiva un ruolo rivoluzionario centrale, rivolto ad assumere il controllo diretto delle attività produttive, a riformare in senso libertario la produzione e la distribuzione delle risorse e dei beni e a introdurre un regime politico-economico di libera federazione tra associazioni di lavoratori.

Un altro esempio negativo di ciò che possono diventare i sindacati, se lo Stato si disinteressa del tutto della loro vita è il corporativismo. La corporazione promuoveva l’interesse dei propri membri soprattutto in due modi: proteggendoli dalla concorrenza di altre città e da quella dei professionisti della stessa città non appartenenti alla corporazione. Raggiunse il primo scopo monopolizzando il commercio e vietando spesso l’importazione; il secondo stabilendo orari uniformi per tutte le botteghe che producevano gli stessi manufatti e paghe uguali per i lavoratori che svolgevano la stessa attività. Per evitare il formarsi di posizioni dominanti, la corporazione stabilì quante persone dovessero lavorare in una bottega, il numero degli attrezzi da utilizzare, i prezzi che il maestro poteva chiedere per i prodotti finiti.

Per tutte queste ragioni, pensiamo che non si possa più sostenere la politica del laissez faire e che la legge deve fissare delle norme precise per costituire un sindacato.

 

    Un sindacato per esser riconosciuto tale dallo stato dovrebbe rispondere a precisi criteri:

    La democraticità. Il principio fondamentale a cui deve ispirarsi tutta la normativa sulla regolamentazione dei sindacati è la democraticità. Non è concepibile che i sindacati siano diretti dall’alto, se mai da boss mafiosi, o che finiscano sotto il controllo di estremisti di sinistra, ma tutte le posizioni dirigenziali devono essere elette dal basso. Le votazioni devono essere pubbliche, cioè tutti possono assistervi e il voto deve essere segreto.

 

    I “sindacatini”. Un altro requisito che deve soddisfare un sindacato per essere riconosciuto come tale e aspirare a sedere al tavolo delle trattative è che deve rappresentare un numero minimo di iscritti. Lo scopo è quello di evitare il proliferare di tanti piccoli sindacatiindividuali. Sergio Cofferati, diversi anni fa, quando era segretario della Cgil, dichiarò in un’intervista a Panorama: “Bisogna stroncare subito, con un decreto legge i mille sindacatini che paralizzano l’Italia.“ Questa affermazione pronunciata proprio da un sindacalista di sinistra ci dà un’idea dell’importanza di una norma che contenga la frammentazione sindacale. “Riflettete su cosa diventerebbe la società italiana – continuò Cofferati nella stessa intervista – se la rappresentanza sindacale fosse ovunque frammentata, come nel settore dei trasporti.” Il risultato sarebbe un’autentica giungla di sindacati puntiforme dei quali pochissimi veramente rappresentativi.” Nel 1999, ad esempio in Italia, nel pubblico impiego c’erano ben 714 associazioni, di queste ben 369 avevano un solo iscritto. Altri 219 sindacati autonomi non avevano più di 10 affiliati. Negli altri, appena 87 avevano un numero di aderenti superiore al 4% dei dipendenti pubblici.

 

Trasparenza. I sindacati, dato che sono enti pubblici, devono essere obbligati a rendere pubblici i propri bilanci, nei quali deve essere specificato in modo dettagliato come hanno utilizzato i soldi trattenuti sulle buste paghe dei loro iscritti.

 

Limiti nella spesa. I sindacati non devono avere completa discrezionalità su come spendono i loro soldi, ma li devono poter usare solo per “motivi sindacali”. Ad esempio, non deve essere possibile loro finanziare partiti o organizzare manifestazioni politiche, né investire soldi in borsa.

   

In ultimo, un governo previdente e capace, non si disinteressa delle questioni sindacali, lasciando l’iniziativa unicamente nelle mani del sindacati. Ad esempio, il Ministro del lavoro per essere sempre presente al momento del rinnovo del contratto; deve riunire le parti e tentare una mediazione, quando le posizioni sono troppo distanti.

In secondo luogo, quando è necessario deve rivolgersi direttamente ai lavoratori. In altre parole non lasciare che siano i sindacati gli unici interlocutori e rappresentanti della classe operaia. Il Ministro del Lavoro, se lo ritiene opportuno, deve fare appello ai lavoratori in sciopero e far presente che le proposte degli imprenditori sono da prendere in considerazione (se mai con conferenze stampe in TV). In altre parole i contatti con “la base” non devono svolgersi unicamente attraverso il filtro dei sindacati.

Anche per quanto riguarda le consulenze sulle questioni di lavoro è bene non lasciare il settore unicamente nelle mani dei sindacati. Il Ministero del lavoro deve avere in tutte le province degli uffici pubblici che informano gratuitamente i lavoratori dei loro diritti. I contratti di lavoro, inoltre, devono essere semplici, chiari, sintetici e in poche parole spiegare chiaramente: retribuzione, qualifica, orario di lavoro settimanale, ferie, assenze per malattia ecc. e una copia di questo contratto deve essere consegnata al lavoratore entro 10 giorni dalla sua assunzione. In questo modo il lavoratore conoscerà i suoi diritti e si eviteranno tante vertenze sindacali.

Non andiamo oltre perché l’argomento è molto vasto e complesso per essere trattato in modo esauriente in questa sede. La cosa importante, è che devono esserci norme severe per regolare la vita dei sindacati in modo che siano veramente istituzioni democratiche e rappresentative. Lo Stato non può e non deve disinteressarsi di tutto ciò che avviene nelle loro sedi perché, in fondo, riguarda noi tutti.

 

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I FLUSSI MIGRATORI

Se si vuole regolare il mercato del lavoro, oggigiorno, è importante anche regolare fenomeni come l’immigrazione e l’emigrazione o la denatalità. Per questo motivo abbiamo inserito l’argomento in questo capitolo.

 

L’EMIGRAZIONE

Esistono due tipi di emigrazione, una interna, quando avviene all’interno dello stesso stato, ad esempio dalle regioni meridionali a quelli settentrionali, e una esterna, verso paesi esteri.

 

L’emigrazione interna. Può riguardare due tipi lavoratori: quelli specializzati o laureati e la manovalanza generica. È vero che la soluzione ideale sarebbe quella di spostare le aziende nelle zone più povere con un più alto tasso di disoccupazione, ma non sempre gli imprenditori sono disposti a farlo. Molte volte, carenze di infrastrutture o la presenza di malavita organizzata (come la mafia), impediscono di fatto la delocalizzazione di nuove imprese nelle aree depresse.

L’emigrazione interna, a parte i drammi personali, famiglie che si spaccano, le persone che sono costrette ad abbandonare le regioni dove sono nate ecc., dal punto di vista politico non sono un fenomeno negativo.

Anzi lo Stato dovrebbe favorire, anche con aiuti concreti e assistenza logistica, i flussi di migrazione da una regione ad un’altra. Lo spostamento di lavoratori, infatti, ha un doppio effetto benefico: in una regione si favorisce la nascita di nuove industrie, cioè si crea sviluppo, in un’altra si allevia il grave problema della disoccupazione.

Per questo motivo, quando non è possibile spostare le fabbriche, bisogna rimuovere gli ostacoli che scoraggiano i lavoratori a spostarsi verso le aree più ricche.

Vediamo alcune di queste misure.

 

Le informazioni. Chiaramente il lavoratore vivendo al sud Italia non conosce quali sono le fabbriche del nord che hanno bisogno di manodopera. Per questo motivo gli uffici di collocamento o le agenzie di lavoro dovrebbero segnalare ai disoccupati residenti nelle aree depresse, le opportunità di lavoro che ci sono, ad esempio, al nord o nel nord est. Come pure gli enti locali potrebbero aprire degli uffici, in cui tramite internet, cercare situazioni positive per i disoccupati locali. Invece negli anni passati succedeva spesso succede che i datori di lavoro al nord, quando avevano bisogno di manodopera, lo comunicavano ai propri dipendenti extracomunitari, che facevano arrivare parenti o amici stranieri da altre zone d’Italia o, addirittura, dall’estero.

Il risultato era questo: in certe zone, come nel Napoletano o in Sicilia, permaneva una situazione di disoccupazione esplosiva (e i disoccupati meridionali costavano allo stato milioni all’anno per sussidi e piani di assistenza sociale), mentre al nord i posti disponibili venivano dati agli stranieri.

 

La casa. Moltissimi lavoratori non sono disponibili a trasferirsi in altre regioni perché quasi tutto ciò che guadagnano se ne va per l’affitto di una casa. Per venire incontro a quest’esigenza lo Stato o gli enti locali dovrebbero dare ai disoccupati, disposti a trasferirsi, un aiuto per pagare il pigione o case popolari. Non è meglio aiutarli ad accettare un lavoro vero, piuttosto che dare loro sussidi di disoccupazione o utilizzarli nei lavori socialmente utili?

 

L’emigrazione all’estero. L’emigrazione all’estero, a parte i drammi personali, come la separazione dalle famiglie, persone che sono costrette ad andare a vivere in contesti socio culturali spesso molto diversi ecc., dal punto di vista macroeconomico porta due importanti benefici al paese di origine dei lavoratori: 1) Allevia il problema della disoccupazione, senza spendere un soldo. 2) Le rimesse degli emigranti creano lavoro in patria, innescando un circolo virtuoso. Ad esempio, l’italiano che un tempo andava a lavorare in Germania mandava i soldi per costruirsi la casa al suo paese, in questo modo dava lavoro alle imprese edili della zona, che compravano più cemento, più laterizi ecc.. In altre parole i soldi inviati dagli emigranti stimolavano la domanda interna, facendo partire l’economia.

 

L’emigrazione è un fenomeno negativo, da scoraggiare, stiamo parlando sempre dal punto di vista economico, soprattutto quando riguarda due fasce di popolazione: i ricercatori e gli imprenditori.

Nel primo caso, i laureati italiani che riescono a trovare lavoro negli istituti americani, portano là la loro competenza e la loro professionalità e perciò sarà in questi paesi che riusciranno a realizzare nuovi farmaci o nuovi prodotti da vendere sul mercato mondiale. Non andiamo oltre, perché ne abbiamo parlato a proposito della ricerca.

Nel secondo caso, quando ad emigrare è la classe media, attiva o gli imprenditori. Il paese perde doppiamente: capitali, che porteranno là per investire, ed imprenditorialità in quanto avvieranno nuove attività o industrie nel nuovo paese. Cioè quando a fuggire è la parte che produce e che paga le tasse, il paese subisce gravi danni.

 

L’IMMIGRAZIONE

È un problema diventato di grande attualità nel nostro paese, ma interessa un po’ tutta l’Europa e il Nord America. Ogni anno un numero maggiore di individui si muovono dai paesi in via di sviluppo verso i paesi ricchi industrializzati, sicché non è esagerato dire che ormai sono sotto assedio. In Italia negli ultimi anni i flussi in entrata sono rallentati sensibilmente dato il perdurare della crisi economica, mentre è aumentato quelli dei rifugiati.

L’immigrazione, al contrario di quello che può sembrare a prima vista, non è un problema semplice o di facile soluzione, ma pone complessi problemi sociali: spesso si creano attriti tra le popolazioni autoctone e i nuovi arrivati, si innescano pregiudizi razziali che possono sfociare in violenze, si pone il problema dell’assimilazione delle culture e in ultimo, ma non per ultimo, comporta problemi di ordine pubblico. Insieme a cittadini onesti, desiderosi soltanto di crearsi un futuro col proprio lavoro, infatti, entrano anche tanti malavitosi, entrano le mafie, i narcotrafficanti, persino terroristi che approfittano di queste masse di diseredati per infiltrarsi.

Non solo, ma se non si regolano bene i flussi, non tutti riusciranno a trovare un lavoro, e allora molte di queste persone incominceranno a delinquere o finiranno nelle file della malavita organizzata. Ma procediamo per ordine. Le posizioni in questo caso sono due: apertura delle frontiere o chiusura.

Nel nostro paese molti, principalmente le forze politiche di sinistra e i cattolici, sono per l’accoglienza e sono convinti che bisogna dare un aiuto a queste persone disperate che vengono dal terzo mondo. Altre forze politiche, tra cui la Lega Nord e alcuni partiti di destra, sono invece del parere che bisogna bloccare i flussi immigratori per evitare che ci “rubino il lavoro” e difendere il benessere che abbiamo raggiunto. Chi ha ragione?

 

Incominciamo col dire che ambedue le posizioni estremiste non sono da prendere in considerazione. La politica delle porte aperte (cioè lasciar passare quasi tutti), può portare più danni che benefici. Il paese che attuasse una politica del genere nel giro di 10 anni sarebbe invaso da una massa di disperati, da un numero incredibile di poveri alla ricerca di un lavoro e tra questi ci sarebbero anche piccoli delinquenti, trafficanti e di ciò ne approfitterebbero le mafie e terroristi di tutto il mondo per infiltrarsi. Si diventerebbe una specie di terra di nessuno e il costo della manodopera crollerebbe, per la grande offerta di braccia.

 

I poveri del mondo sono più di 2 miliardi, in un paese piccolo come il nostro, la mancanza di qualsiasi tipo di controllo potrebbe far giungere sul nostro territorio, a poco a poco, qualcosa come 10 milioni di persone o anche più, con effetti disastrosi sull’ordine pubblico, sullo stato sociale (che salterebbe in quanto i poveri da assistere diventerebbero troppi) ecc.. Nascerebbero baraccopoli alle periferie di ogni città, ad ogni semaforo ci sarebbero folle di mendicanti, diventerebbe pericoloso uscire di notte e le spese per la sicurezza, non solo per i ricchi, aumenterebbero a ritmi esponenziali. Nel giro di qualche decennio avremmo gli stessi problemi sociali e di ordine pubblico di certi paesi dell’Africa.

 

Anche la posizione opposta, cioè la totale chiusura delle frontiere, è sbagliata se non altro per il fatto che non si può rimanere indifferenti alla miseria e alla povertà dei paesi in via di sviluppo. Non si può sbattere la porta in faccia a tanta povera gente che vuole costruirsi un futuro onestamente. Per secondo, gli immigrati costituiscono manodopera a basso costo e ciò può costituire una risorsa per le industrie che devono fronteggiare la concorrenza internazionale.

Per terzo, spesso ci sono interi settori (o meglio c’erano perché crediamo che in Italia dopo la crisi finanziaria scoppiata nel 2008 ormai le possibilità di lavoro si sono ridotte per tutti) che hanno bisogno di manodopera, dall’agricoltura all’assistenza agli anziani, lavori che gli italiani non vogliono più fare, perché troppo umili e mal pagati.

 

REGOLARE I FLUSSI. L’esperienza ci ha insegnato che è la soluzione migliore. Non solo in Italia, ma anche negli altri paesi meta di immigrazione, si è capito che è necessario regolare i flussi di immigrazione. In effetti, esistono due tipi di immigrazione: una subita e una scelta. L’immigrazione subita, è quando lo Stato ospitante subisce le ondate immigratorie, mentre l’immigrazione scelta è quando lo Stato ospitante controlla i flussi, godendo di tutti i benefici e limitando gli aspetti negativi. Non solo, ma seleziona le persone in modo da fare entrare soltanto coloro che hanno intenzione di lavorare onestamente e vogliono integrarsi con la popolazione autoctona.

 

I flussi immigratori vanno controllati, quindi, sia per quanto riguarda la quantità che la qualità.

    La quantità. I poveri nel mondo sono più di 2,5 miliardi di persone, è chiaro che non si può accogliere tutti. Per questo motivo se non si vuole andare incontro a grossi problemi di ordine pubblico, bisogna fissare dei tetti massimi di persone che possono entrare ogni anno. Flussi incontrollati non causano solo problemi di ordine pubblico, ma provocano un eccesso di manodopera sul mercato. Non bisogna trascurare il fatto che queste persone si accontentano di paghe da fame e che così facendo, fanno concorrenza alle fasce di popolazione autoctona che non hanno un titolo di studio o una specializzazione. Non andiamo oltre, perché è fin troppo logico: bisogna far entrare un numero di persone proporzionale al numero di posti di lavoro disponibili altrimenti gli immigrati, che non trovano occupazione, finiranno per infoltire il mercato dei traffici illeciti o, peggio, incomincerebbero a delinquere.

 

La qualità. È necessario dare la precedenza alle persone oneste e abituate a lavorare, il che significa a coloro che hanno precedenti esperienze lavorative. Chi ha lavorato per 10 anni nel suo paese in una fabbrica o come aiutante in un’officina, chi ha fatto il bracciante agricolo per molto tempo, difficilmente una volta entrato in Italia si mette a delinquere. Se, al contrario, si lascia entrare chi nel suo paese non ha mai lavorato ed è vissuto sempre di espedienti o di piccoli traffici, non è difficile che una volta in Europa si dedichi al contrabbando o ad attività illegali. Non fosse altro per il fatto, che non si adatterà facilmente al duro lavoro in fabbrica o a quello nei campi per 8 – 9 ore al giorno.

 

Canali legali di immigrazione. È il metodo migliore per regolare l’immigrazione: costituire dei canali legali, cioè chiunque desidera venire nel nostro paese deve inoltrare una regolare domanda presso consolati o ambasciate all’estero. Il primo requisito che deve possedere chiaramente è una fedina penale pulita, cioè non deve avere assolutamente precedenti penali. Per secondo, deve esibire delle referenze lavorative, da controllare. In parole povere bisogna evitare assolutamente che insieme alle persone che vengono nel nostro paese per lavorare onestamente, entrino anche delinquenti, trafficanti o piccoli criminali, se mai già affiliati alle mafie straniere.

È bene tenere presente che quando si fissano le quote di immigrazione bisogna dare la precedenza alle persone che provengono da paesi con una cultura molto simile alla propria, perché è più facile l’integrazione. Ad esempio, gli argentini provengono da un paese latino come l’Italia. Mentre bisogna limitare l’immigrazione proveniente da quei paesi, i cui immigrati negli anni passati hanno dati grossi problemi di ordine pubblico. È il caso di rumeni, slavi, molti dei quali sono stati arrestati per furti nelle ville isolate, o dei marocchini che in alcune città del nord Italia controllano lo spaccio della droga.

 

Un altro aspetto da tenere presente è la volontà di integrarsi. È bene limitare gli afflussi di coloro che, poi, nel nostro paese costituiranno dei ghetti, andranno ad abitare tutti nella stessa zona, costituendo dei quartieri isolati, come i cinesi. Mentre bisogna privilegiare le persone che vengono per integrarsi e che vogliono diventare italiani, senza per questo rinunciare alla loro religione o alle loro tradizioni.

Il miglior modo, comunque, per individuare le mele marce resta la verifica dei comportamenti. Il che significa che se lo straniero viene fermato perché la sera si ubriaca nel bar o perché spesso è coinvolto nelle risse o perché vende prodotti griffati, bisogna togliergli il permesso di soggiorno e espellerlo dal paese. Per questo motivo non bisogna mai concedere la cittadinanza, prima che l’immigrato abbia trascorso almeno 10 anni dal suo ingresso nel nostro paese (da revocare nel caso l’immigrato si rende colpevole di gravi reati o dimostri di voler vivere di traffici illeciti, come lo spaccio).

 

L’immigrazione minorile. Le norme vigenti in alcuni paesi come l’Italia impediscono di espellere i minori di 18 anni. Si tratta di una misura “umanitaria giusta”, ma che non tiene conto della realtà. Una volta entrati questi bambini o adolescenti dove finiscono? Chi si prende cura di loro? Il Ministro dell’interno Maroni dichiarò a un giornale che di circa 400 minori entrati in Italia nel 2008 a bordo delle carrette del mare si erano perse le tracce. Molti finiscono a fare traffici illeciti o arruolati nelle file della malavita organizzati o a chiedere la carità ai semafori sfruttati da adulti senza scrupoli. La soluzione migliore del problema è sicuramente riportarli in patria per restituirli alle famiglie.

La soluzione di ospitarli in case famiglie è molto costosa ed è praticabile finché non sono troppo numerosi, ma se diventano diverse decine di migliaia?

 

Come fermare l’immigrazione. Ci sono persone che sostengono che è impossibile fermare l’immigrazione con più di 7.000 km di costa. È un’altra strategia spesso usata dai politici, quando non riescono a risolvere un problema, fanno apparire il compito impossibile. Altri paesi, infatti, ci riescono benissimo. Provate ad emigrare negli Stati Uniti o in Canada, troverete tutte le porte chiuse. Ma anche qui nel Mediterraneo la Grecia, Malta, la Spagna si difendono meglio di noi. Come mai le carrette del mare non arrivano sulle coste greche eppure alcune isole sono vicinissime all’Africa? Perché la Grecia espelle il 99,70% dei clandestini. Malta, addirittura, li arresta e li tiene in prigione finché non lasciano il suo territorio. Risultato nessun nord africano approda più in questi due paesi.

Le misure da prendere sono varie. Per prima cosa, occorre evitare assolutamente di fare sanatorie per regolarizzare i clandestini approdati sulle coste o in modo illegale. Una volta costituiti dei canali legali di immigrazione e bisogna fare presente a tutti, anche con annunci sui mass media dei paesi da cui provengono i clandestini, che non si faranno più sanatorie e che chi entra illegalmente non riceverà mai il permesso di soggiorno. Quando se ne saranno resi conto, smetteranno di arrivare. Al contrario, finché si continuerà a legalizzare tutti coloro che arrivano a bordo delle “carrette del mare” o introdotti con passaggi clandestini alle frontiere, questo traffico non finirà mai, anche perché costituiscono un ottimo business per la malavita organizzata!

 

Per secondo, bisogna rendere efficaci i mezzi di espulsione. Se gli immigrati sanno che arrivando sulle nostre coste con barconi, in un modo o in un altro, con una scusa o con un trucco, riusciranno sempre a restare nel nostro paese, continueranno a venire. La migliore cosa, nel caso dell’Italia, è: trovare uno stato nel Nord Africa disponibile a farci aprire uno centro di accoglienza sulle sue coste (ovviamente pagando, ma costerà sempre molto meno che da noi). Appena arrivano gli immigrati, non gli si spara addosso come suggeriscono i veri razzisti, ma si rifocilla, li si cura, se hanno problemi, e si passano subito a bordo di un traghetto, che li porterà in questo campo, ad es. in Tunisia o in Algeria. Qui funzionari italiani vagliano le loro domande di immigrazione, li identificano, accolgono i veri profughi politici e respingono tutti gli altri.

Se si sarà fermi su questa politica per alcuni anni, a un certo punto gli immigrati si convinceranno che l’unico modo per entrare in Italia è tramite i canali legali, perciò non verranno più. Finirà lo scandalo delle carrette del mare e non ci saranno tanti morti per gli inevitabili affondamenti che ogni tanto si verificano.

Anche la politica di pagare i paesi del nord Africa per far controllare il traffico di clandestini è una buona strategia però non è la soluzione ottimale. Nel 2009 nonostante Berlusconi avesse dato a Gheddafi qualcosa come 5 miliardi di dollari, continuarono ad arrivare barconi di profughi. Non solo, ma una volta caduto il regime del colonnello, ci siamo trovati punto e capo. Per secondo, questi paesi chiedono sempre più soldi e spesso fanno poco per fermare questi disperati.

 

Conflitti o rivoluzioni. In questi casi non si può chiudere le frontiere però si possono creare dei campi profughi nei paesi limitrofi o dare permessi di soggiorno provvisori di 6 – 9 mesi, in modo che poi si possa far pressione su questi lavoratori per farli rientrare alla fine della crisi.

 

      Gli errori da evitare. Gli immigrati non devono fare concorrenza alla manodopera locale accontentandosi di paghe da fame, dimostrando di essere disponibili a lavorare anche nei giorni festivi o oltre l’orario previsto dalla legge ecc.. Chi assume stranieri deve pagarli come i lavoratori italiani e deve garantire loro gli stessi diritti. Come pure bisogna evitare gli imprenditori si sbarazzino di lavoratori locali per assumere extracomunitari perché così possono sfruttarli come vogliono.

Una misura per incoraggiare gli imprenditori a preferire la manodopera indigena è quella di far pagare una piccola tassa sul work permit, in Italia permesso di soggiorno, o far pagare dei contributi più alti.

Un’altra strategia, sull’esempio di altri paesi del mondo come Panama, potrebbe essere quella di vincolare l’imprenditore a tenere in organico almeno il 50% dei lavoratori nazionali. In altre parole su 10 dipendenti non può avere più di cinque stranieri.

Per secondo bisogna evitare che gli immigrati entrino con un permesso di soggiorno come badanti o lavoratori agricoli e il giorno dopo si aprano un negozio. Abbiamo bisogno di persone che svolgono certe mansioni, non di commercianti. A tal luogo si potrebbe introdurre una norma che gli emigrati possano ottenere una licenza commerciale solo dopo 10 anni di permanenza nel paese e dopo aver sostenuto un esame alla camera del commercio, in cui dimostrano di saper parlare la lingua e di conoscere le bene leggi.

 

      Limitazione alle attività. Sull’esempio di alcuni paesi è bene mettere anche dei limiti alle attività che gli immigrati nel primo periodo di permanenza possono fare. Non è giusto che persone entrate nel nostro paese come turisti, dopo pochi mesi si aprano un negozio di casalinghi o un supermercato. Noi abbiamo bisogno di certe categorie, cioè dobbiamo coprire i lavori che gli italiani non vogliono fare, non di persone nel terziario.

Chiaramente il riferimento è alle attività commerciali, è bene evitare che passino in mano agli stranieri. Non solo nel nostro paese i cinesi si stanno accaparrando molti tipi di attività, innanzitutto negozi di casalinghi e prodotti elettronici. I governanti molte volte non tengono presente che ognuno di essi fa chiudere molti negozi locali.

In secondo luogo bisognerebbe costringerli ad assumere manodopera locale. I cinesi nelle isole di Capo Verde, ad es., per aprire un negozio devono dare lavoro a 2 o 3 commesse locali.

 

Difficoltà burocratiche. L’unico modo per fermare l’emigrazione dai paesi europei o dalle quelle nazioni con cui in precedenza si sono sottoscritti accordi è quello di porre ostacoli burocratici. In Germania non ti danno il lavoro se non hai una casa o almeno un contratto di affitto di un anno e non ti affittano una casa se non hai un contratto di lavoro, cioè rende le cose più difficili agli immigrati. Un’altra regola esistente in alcuni parti dell’Europa è che per affittare una casa devi avere un conto corrente bancario su cui si sia una somma media di 10.000, ciò sbarra la strada a coloro che arrivano senza un soldo che, di solito, sono coloro che causano problemi. Anche concedere un numero limitato di partite IVA, indispensabile per aprire una qualsiasi attività può essere un freno a un’immigrazione eccessiva e dannosa.

Un regola da mettere in ogni caso è che il datore di lavoro quando assume gli stranieri deve garantire loro almeno un anno di lavoro. Non si può dare il permesso di lavoro a una persona assunta solo per qualche mese d’estate. Per evitare trucchi l’imprenditore deve pagargli in anticipo almeno 4 – 5 mesi di contributi sociali e poi impegnarsi a tenerlo in organico almeno per un anno.

 

LE PROBLEMATICHE DEMOGRAFICHE

Le problematiche primarie, in questo caso, sono quelle legate al tasso di natalità, che può essere troppo alto, con la conseguenza che la crescita della popolazione è superiore alle possibilità di creare nuovi posti di lavoro, o al contrario il problema della denatalità, che tocca paesi sviluppati come il nostro a crescita zero, in cui i nuovi nati non riescono a coprire i vuoti lasciati dalle persone decedute.

 

FORTE INCREMENTO DEMOGRAFICO. È un problema che attualmente riguarda solo certi paesi in via di sviluppo. È una delle cause principali di povertà. Lo sappiamo che certi ambienti, soprattutto quelli religiosi, respingono questa tesi, ma è inconfutabile con dati scientifici: quando lo sviluppo economico non tiene dietro all’incremento demografico è inevitabile che si crea disoccupazione e miseria. Il problema è che per fare un bambino ci volgono pochi minuti e una donna ne può mettere al mondo anche più di 10 – 12, mentre per creare posti di lavoro ci vogliono molti anni e notevoli capitali.

Essendo poco attuale nel nostro paese, non ci dilunghiamo sull’argomento. La soluzione giusta, comunque, è quella di creare una cultura della paternità responsabile, cioè occorre educare i giovani, se mai con corsi prematrimoniali pagati, che mettere al mondo dei figli senza aver niente per sfamarli significa esporli a una vita di stenti e di fame; abbandonarli poi, non solo è un reato, ma un vero e proprio delitto.

Insomma, il problema si risolve con l’educazione e scuola, mass media, associazioni di volontariato, se mai finanziati dal governo, ecc., devono cercare di diffondere una nuova mentalità. Gli enti locali, invece, devono dare aiuti, in cambio di maggiore responsabilità nei comportamenti sessuali. Insomma lo autorità pubbliche non devono disinteressarsi del problema come fosse un affare privato, ma contattare ad es. le adolescenti che restano incinte a 16 anni, le famiglie numerose ecc. e stabilire un programma di sostegno.

 

LA DENATALITÀ. È un problema che oggi riguarda alcuni paesi industrializzati dell’Occidente, come l’Italia, ma in un futuro prossimo potrebbe interessare un numero sempre maggiore di stati. In queste nazioni si fanno pochi bambini, la popolazione invecchia e il numero dei giovani non è sufficiente a rimpiazzare gli anziani che vanno in pensione. Molti paesi europei, fra cui la Francia e Germania, hanno già da tempo varato programmi per contrastare il continuo calo della popolazione, che spesso non diminuisce soltanto per effetto dell’immigrazione. Vediamo le misure più usate per contrastare il fenomeno.

 

Bonus in denaro. È un regalo che si promette ai genitori per convincerli a mettere in cantiere un figlio. Sono in molti a dubitare di questo metodo. Innanzitutto è alquanto discutibile dal punto di vista morale, in quanto ha tutta l’aria di una specie di premio di produzione. I figli si mettono al mondo per amore, per prendersi cura di loro, per star loro vicini e seguirli nel cammino verso la maturità, non per prendere dei soldi.

Agendo così si premia gli irresponsabili, gli uomini che mettono incinta una donna, si prendono i € 2.500 del premio e poi abbandonano madre e figlio. Nella nostra società non esistono soltanto persone mature, equilibrate, ma anche alcolizzati e tossicodipendenti, sbandati ecc.. Per le persone appartenenti a queste categorie, 2.500 euro (talvolta anche di più), sono una somma enorme, con cui si può fare tante cose, anche se significa mettere nei guai una donna e, poi, il bambino.

Esistono molti dubbi anche sui risultati che si possono conseguire con questo sistema. In Gran Bretagna nel passato si è visto che con questa misura si convinceva a fare altri figli soprattutto gli immigrati, mentre gli inglesi invece di aumentare, diminuivano, perciò fu abbandonata. Esiti simili si sono avuti, anni fa, anche in Francia. Ad approfittare della legge sono stati principalmente i francesi di origine africana. Se si voleva incrementare il loro numero non era più semplice aprire le frontiere a chi da anni cercava di emigrare in Europa, almeno si sarebbe lenito il problema della fame in questi paesi?

 

Assegni familiari. Piuttosto che dare un premio di natalità, alcuni paesi come la Francia, hanno scelto di aumentare gli assegni familiari o di dare un piccolo assegno mensile, da consegnare alla madre, per aiutarla ad allevare il bambino almeno i primi cinque anni di vita. I futuri genitori sanno che fino a 5 anni prenderanno un assegno, ad esempio di € 300 al mese, in questo modo potranno provvedere a tante cose.

 

Gli asili nidi. È la strada intrapresa dalla Danimarca, dotarsi di ottimi loro asilo nido e scuole materne in modo che i genitori durante le ore lavorative possono contare su ottime strutture pubbliche in cui lasciare i piccoli. Non bisogna però limitarsi alle sole scuole dell’infanzia, ma anche la scuola elementare deve avere corsi a tempo pieno, con mensa scolastica, che devono funzionare 11 mesi all’anno.

 

    Rimuovere le cause della denatalità. È sicuramente il metodo migliore, studiare i motivi, come salari troppo bassi, orari lavorativi troppo lunghi, mancanza di servizi ecc., che frenano i nuovi genitori a non volere bambini. Oggi si chiede agli italiani di fare più figli, ma poi spesso i posti nelle scuole materne comunali sono insufficienti (anche perché affollati di figli di immigrati) ed ecco che i genitori sono costretti a rivolgersi a quelle private, pagando rette molto salate (anche 800 – 1.000 euro al mese). Nel 2011, per citare un dato, il 40% dei cittadini doveva ricorrere ad asili privati. In Francia si sono ottenuti ottimi risultati riuscendo a conciliare vita professionale e vita familiare. Asili aperti dalle 7,30 alle 18,30, asili aziendali nelle aziende maggiori con gli stessi orari dei lavoratori, rette alla portata di tutti ecc..

 

Tra queste misure quattro rivestono particolare importanza:

1) Orari di lavoro compatibili con la funzione di genitori, come pure bisogna permettere, a chi vuole, di passare sul part-time per alcuni anni finché il bambino non è più grande.

2) Possibilità di chiedere permessi per assistere i propri figli (oggi, in pratica se si ammalano dopo i tre anni, uno dei genitori deve fingersi malato per poter restare a casa).

3) L’abitazione. Occorre favorire le giovani coppie, che vogliono mettere al mondo un bambino, nell’assegnazione di case popolari o offrire loro dei contributi per pagare l’affitto.

4) I problemi economici. Sapete quante coppie rinunciano ad avere un figlio perché non guadagnano abbastanza? Se le retribuzioni sono troppo basse nessuna coppia si può permettere di mettere al mondo più di un figlio.

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