PERCHÉ UNA NUOVA SCIENZA?

SCIENZA DEL GOVERNO e SCIENZA POLITICA

La sbg si propone come una branca della sp, infatti ne utilizza conoscenze ed esperienze, in quanto ne sviluppa soprattutto la componente propositiva. In altre parole intende realizzare lo scopo della scienza politica applicata alla politica enunciato da tanti studiosi ad iniziare da Sartori (nel convegno di Milano nel 1967, tra le altre cose, parla della funzione della scienza politica come sapere applicativo).

Mentre la scienza politica è soprattutto analisi e descrizione dei fenomeni politici, la scienza del buon governo è principalmente una sua applicazione, che studia le soluzioni. Ad es. mentre la scienza politica analizza i diversi regimi democratici, distinguendo regimi parlamentari e governi presidenziali, la sbg suggerisce l’ingegneria costituzionale per creare un modello di democrazia funzionale, cioè che garantisca la governabilità e un sistema di alternanza al potere.

 

Tra la prima e la seconda esiste la stessa differenza che c’è tra politica economica ed economia politica. Mentre quest’ultima è soprattutto una disciplina analitica, che studia i fenomeni economici “analizzando il modo in cui individui, gruppi, imprese e governi cercano di raggiungere in modo efficace l’obiettivo economico che si sono prefissati”, la politica economica è “l’insieme di misure adottate dai poteri pubblici al fine di regolare l’andamento dell’economia di un paese”; in parole povere, suggerisce le strategie migliori per affrontare i problemi economici, ad esempio, come stabilizzare i prezzi e fermare l’inflazione.

Perché una nuova scienza?

La scienza del buon governo, secondo alcuni cattedratici italiani, tra cui G. Pasquino, si occuperebbe di tematiche che sono già oggetto di studio della scienza politica. Si tratta di un’obiezione giusta fino a un certo punto, all’inizio, infatti, anche noi ci siamo mossi nell’ottica di restare all’interno della scienza politica, poi ci siamo convinti che se si voleva procedere in modo razionale e conseguire risultati concreti, occorreva dar vita a una nuova disciplina.

 

I motivi che ci hanno spinto a una tale scelta sono stati molteplici.

1) Sostenere che la scienza politica sia una disciplina propositiva, a nostro avviso, significa “forzare un po’ la mano”. Dalla letteratura esistente non emerge chiaramente che si tratta di “una scienza applicabile”, come scrive G. Pasquino.

Basta dare uno sguardo ai manuali di scienza politica, in uso nelle maggiori università. La quasi totalità di essi è principalmente analitica, interpretativa della realtà politica, solo in pochi casi la scienza politica è propositiva, come ad esempio quando si occupa dei sistemi elettorali. Sono stati in molti, tra cui Sartori e Pasquino, non solo ad aver condotto studi comparati sui diversi sistemi elettorali, ma ad essersi spinti anche a proporre il sistema che a loro parere era migliore (il maggioritario a doppio turno di tipo francese).

 

È vero, esistono numerosi saggi che parlano dell’analisi delle politiche pubbliche, ma considerare come “appartenente” alla scienza politica qualsiasi trattato parli di politica ci sembra un po’ pretestuoso. Un volume per rientrare in questa categoria deve avere determinate caratteristiche, come uno studio su base scientifica e un approccio pluralistico, cosa che la maggior parte di questi saggi non ha.

Inoltre, quasi sempre non c’è niente che lega questi studi, cioè non sono inquadrati in uno schema più ampio, in modo da essere in relazione gli uni con gli altri. Né esiste alcun manuale o corso universitario che li riporta, anche se solo in modo schematico, tutti. In effetti manca il “quadro d’unione”; la completezza è, infatti, come abbiamo detto, uno dei requisiti principali che distingue le discipline scientifiche da quelle filosofiche, basate principalmente sulle opinioni.

Se guardiamo ad altre discipline vedremo che questo requisito è presente. Se, ad esempio, analizziamo un manuale di economia di una delle più prestigiose università americane, come il volume di Paul A. Samuelson, Yale University, che per anni è stato il più studiato negli Stati Uniti, vedremo che esso comprende tutte le tematiche economiche, dalle politiche fiscali a quelle monetarie ecc.. Chiaramente, alcune sono trattate in modo più approfondito, altre in modo più superficiale, ma ci sono tutte ed inquadrate in uno schema più ampio.

 

In secondo luogo, la stragrande maggior parte dei saggi che parlano dell’analisi delle politiche pubbliche sono libri bianchi, libri denuncia sulle “cose” che non funzionano nel nostro paese. Ad es. parlano delle disfunzioni del sistema sanitario italiano o della politica pensionistica, ma sono scarsamente propositivi, cioè non sempre offrono soluzioni o queste ultime sono basate sul metodo scientifico. Nessuno di essi, ad es., dà precise indicazioni su come andrebbe organizzato un sistema sanitario nazionale.

In conclusione, una cosa è la teoria e una cosa è la pratica. La sp può ritenersi “applicativa” solo a parole, però a parte sporadiche enunciazioni poi nessuno è “passato ai fatti”. Se si guarda la realtà, infatti, si scopre che la scienza politica si occupa principalmente di analisi dei fenomeni politici, di interpretazione delle realtà politiche ecc.. Inoltre, come ammette anche G. Pasquino (2008) “la maggioranza degli studiosi finisce per limitarsi all’esposizione delle risultanze ottenute”.

 

Una ricerca. Abbiamo cercato un’ulteriore conferma a questa nostra convinzione conducendo un piccola indagine. In biblioteca abbiamo vagliato con attenzione tutte le definizioni di scienza politica riportate nei manuali più noti.

Ebbene in nessuna di esse si accenna al fatto che la scienza politica ha anche un carattere propositivo. Secondo R. Bobbio (2003) “È lo studio dei fenomeni e delle strutture politiche, condotto con sistematicità e rigore, appoggiato su un ampio ed accurato esame dei fatti, esposto con argomenti razionali.” Più avanti nello stesso volume (dizionario di politica), si accenna a un’ulteriore funzione della scienza politica: quella di previsione. “Lo scopo della scienza politica è quello di spiegare i fenomeni che ha per oggetto e non soltanto di descriverli. Al processo di spiegazione è strettamente connesso quello di previsione, quest’ultimo è il principale scopo politico della scienza politica. Tuttavia la scienza politica è ben lungi, nell’attuale fase di sviluppo, dal poter fare previsioni scientifiche”.

 

In conclusione, nelle definizioni riportate sulla quasi totalità dei manuali di scienza politica non si fa cenno a una scienza politica “propositiva”. Essa è diventata tale, solo dopo che il sottoscritto ha proposto la scienza del buon governo, segnalandola a numerosi studiosi.

È vero, l’accettazione del principio che sia possibile conoscere i fenomeni politici in modo avalutativo e produrre un sapere suscettibile di applicazioni concrete, risale agli anni ’60, e vede in G. Sartori come uno dei suoi principali precursori, ma poi non si è proseguito su questa strada. In altre parole non si è data vita a una branca che si proponesse questo scopo o si è indicata la metodologia per tradurre in pratica questa intenzione.

 

2) La scienza politica ha un oggetto degli studi davvero molto vasto. Il suo campo d’indagine va dall’analisi della comparazione dei sistemi elettorali, alla partecipazione politica, allo studio i regimi dittatoriali, alla descrizione delle politiche pubbliche ecc. ecc.. È stato il principale motivo a convincerci che occorreva favorire la nascita di una nuova scienza. I contenuti di cui si occupa la sp, infatti, sono diventati così vasti, che si imponeva una specializzazione. È successo in tutte le discipline, guardiamo, ad esempio, la psicologia. Negli ultimi anni sono nate branche, come la psicologia sociale o la psicologia socio-cognitiva ecc.. In effetti, l’ampliamento delle conoscenze, in tutti i settori, spinge a creare nuove specializzazioni, in modo che ognuno si possa concentrare su tematiche specifiche.

A chi ci ha accusato, come il prof. E. Jones, di volere procedere a una “balcanizzazione della scienza politica”, abbiamo risposto che noi abbiamo proposto la creazione di una sola branca, non di una serie. Nessuno si è mai sognato di smembrare la scienza politica in una miriade di discipline, si è proposto di creare una “sola specializzazione”.

 

    3) Si tratta di una disciplina di fondamentale importanza e di grande l’utilità in quanto la sbg si propone di dotare i politici degli strumenti per governare in modo giusto. È stato uno dei motivi principali, a spingerci verso la soluzione di creare una nuova scienza. Dato che il nostro oggetto di studio, ossia la ricerca delle soluzioni ai problemi socio politici, ha notevoli implicazioni nella pratica, ci sembrava più opportuno che esistesse una scienza specifica. In fondo gli studi storici o quelli sui pianeti del sistema solare, per portare qualche esempio, hanno scarsa rilevanza pratica, in quanto le conoscenze raramente sono applicabili alla vita quotidiana, non è così per la scienza del buongoverno.

Pensate agli enormi vantaggi che si potrebbero avere se un domani nascessero dei centri di ricerca di scienza del buon governo o le università introducessero studi specifici. I politici avrebbero a disposizione degli esperti che darebbero loro dei preziosi consigli “su come governare bene”, cosa che non potrebbe non portare a un miglioramento notevole della qualità della vita. Non solo ma potrebbero evitare tantissimi errori dovuti all’inesperienza e alla mancanza di una cultura specifica. In effetti, se la nostra proposta di fondare una nuova scienza, avesse successo, avremo gente molto più qualificata alla guida dei paesi e le cose andrebbero sensibilmente meglio nel mondo.

 

3) La scienza politica, non può essere analitica, interpretativa, descrittiva e nello stesso tempo anche propositiva. Abbiamo visto l’esperienza dell’economia politica e della politica economica, che a un certo punto si sono dovute separare, perché i loro studi divergevano. Questo soprattutto perché, anche se può sembrare che scienza politica e scienza del buongoverno si occupino delle stesse cose, cambiando le finalità, cambia completamente l’ottica, di conseguenza, spesso cambiano anche i contenuti.

La scienza del buongoverno, ad esempio, si occupa anche delle tematiche economiche (utilizzando le conoscenze dall’economia) in quanto le ritiene non scindibili da quelle socio politiche. In fondo qualsiasi tematica può essere ricondotta a una economica, per questo motivo la conoscenza dell’economia dovrebbe far parte del normale bagaglio culturale di ogni politico. Il problema della criminalità, ad esempio, è strettamente collegato a quello dello sviluppo economico, perché quando la gente non lavora, è portata più facilmente a delinquere.

In alcuni casi, poi, gli interessi di sp e sbg, addirittura, divergono del tutto. Ad esempio, la scienza politica ha tra i suoi principali oggetti di studio i regimi non democratici, invece la scienza del buon governo si disinteressa del tutto di essi in quanto ritiene che la democrazia sia una conquista irrinunciabile; piuttosto concentra la sua attenzione sull’ingegneria costituzionale per creare una democrazia che funzioni come un’azienda ben organizzata.

In effetti proponendosi scopi diversi, ciò dà un diverso carattere agli studi. La scienza del buongoverno mira a suggerire le soluzioni ai problemi concreti e reali della gente, ossia la ricerca di una risposta alle “difficoltà quotidiane”, mentre la scienza politica si occupa principalmente dell’analisi politica.

Infine, una disciplina non può essere nello stesso tempo interpretativa e propositiva, in quanto si tratta di due momenti diversi. La disciplina propositiva può essere considerata una continuazione della prima, e data la vastità dei contenuti in oggetto era consigliabile fondare una nuova branca per dare più agibilità a tali studi.

 

4) La scienza politica ha già una sua precisa collocazione, se possiamo dire una sua “personalità”, si propone certe finalità, studia i fenomeni politici, ne cerca le motivazioni, cercando di pervenire a “leggi generali”, che possono servire a spiegare tutti i casi simili, perciò ci sembrava una forzatura volerle aggiungere un “prolungamento. Come scrive G. Pasquino “L’obiettivo della scienza politica consiste nel pervenire a generalizzazione e a spiegazioni di carattere nomotetico, vale a dire che consentono di formulare leggi di carattere generale e teorie probabilistiche.”

 

5) È facile verificare sp e sbg si occupano delle stesse cose semplicemente paragonando i contenuti di un ottimo manuale di Scienza Politica, come quello di G. Pasquino, con i contenuti (in pratica con l’indice) della sbg esposti in questo sito. Ad esempio, nel nostro lavoro manca qualsiasi accenno ai regimi autoritari e totalitari, in quando ritenuti inaccettabili; altro esempio, più che perderci nella descrizione dei numerosi sistemi elettorali esistenti in tutto il mondo, abbiamo mirato soprattutto a disegnare due nostri modelli, uno per i regimi parlamentari, uno per i regimi presidenziali, che garantissero la governabilità e favorissero l’alternanza al potere.

Inoltre, nel nostro studio le problematiche sociopolitiche sono suddivise e studiate, a seconda dei Ministeri di competenza. Metodo di classificazione che non esiste in nessuna altra opera di sp. Infine, tra le problematiche di cui deve occuparsi il politologo della nostra disciplina, come abbiamo detto, ci sono quelle economiche che occupano un posto centrale, tematiche che i politologi della sp ritengono estranee e perciò non riportano alcun accenno.

E si potrebbe continuare a lungo; ma anche quando sp e sbg parlano delle stesse cose, sono trattate con un’ottica diversa, descrittiva nella sp e con il chiaro intento di dare dei suggerimenti alla classe politica nel caso della sbg.

 

In conclusione, la scienza del buongoverno continua la strada indicata da tanti politologi come Giovanni Sartori e Gianfranco Pasquino: rendere applicativa la scienza politica. Per farlo abbiamo dovuto creare una nuova branca, ci scusiamo se ciò ci può far apparire presuntuosi.

 

———————— ELEMENTI di SCIENZA POLITICA ———————-

Liberamente tratto dal volume di M. Duverger, “I partiti politici” (1975)

 

LA LOTTA POLITICA

In tutte le società animali, compreso quelle umane, esiste la lotta per il potere. Nella maggioranza delle specie il capo non è soltanto il numero uno in ordine gerarchico, con evidenti vantaggi sugli altri, bensì il governante del gruppo, che ha compito di curare l’interesse collettivo. Il capo branco conduce il gruppo a cibarsi, lo riporta indietro, lo guida e, non per ultimo, assume una funzione di “capo guerriero” che dirige la difesa o l’attacco, a seconda delle circostanze.

Gli esseri umani non fanno eccezione a questa regola. Qualsiasi gruppo, una volta superate certe dimensioni, si deve dare un’organizzazione e una struttura gerarchica. Da questa esigenza fondamentale nasce la lotta politica, cioè la competizione per il potere e per stabilire la gerarchia. Un gruppo per poter funzionare, infatti, non solo ha bisogno di un leader, ma deve stabilire tutta una serie di ruoli e di quadri intermedi, che dall’alto vanno verso il basso. È indispensabile per limitare la conflittualità all’interno del gruppo (una volta, infatti, stabilita una gerarchia sociale, tutti la rispettano e i litigi diventano rari), ma anche per assegnare compiti e precedenze.

 

La lotta per il potere. In tutte le comunità il potere procura a chi ne è detentore vantaggi e privilegi, onori e prestigio, perciò è oggetto di un’aspra contesa, non solo tra individui, ma anche tra i gruppi o le organizzazioni. Il potere viene, infatti, esercitato sempre a vantaggio di un gruppo, di un clan o di una classe sociale, contro di esso la lotta viene condotta da altri gruppi, clan o classi che vogliono sostituirsi ai primi. Nei paesi democratici moderni sono nate organizzazioni specialiste, delegate proprio a questo compito: i partiti.

La conquista del potere, comunque, non è solo un fatto economico ma anche la ricerca di prestigio e privilegi. Ogni uomo si batte per far prevalere le sue idee o il suo modo di pensare, e l’essere umano è l’unico animale capace di morire per difendere le proprie idee.

 

LE ARMI DELLA LOTTA

Gli uomini e le organizzazioni impegnate nella lotta politica si servono di vari tipi di armi, nonostante l’obiettivo primo della politica sia proprio quello di eliminare la violenza e di sostituire i conflitti cruenti con forme di lotta pacifica e democratica. In effetti, anche se la politica tende ad eliminare la violenza, non riesce ad evitarla del tutto.

 

Le principali armi usate nella lotta politica sono:

1) La violenza fisica. Il potere storicamente trae origine dalle armi militari. “Il primo ad essere re fu un soldato fortunato”, Duverger (1975). In molte comunità umane è il più forte ad avere il potere. Il capo nelle squadre di teppisti o nelle bande di delinquenti è colui che ha il pugno più forte o il coltello più veloce. Per fortuna, oggi le cose sono cambiate. Il lungo cammino che ha portato all’affermazione dei principi democratici ha stabilito che il popolo è sovrano e delega il potere di governarlo attraverso libere elezioni. Negli stati moderni, la violenza è stata bandita (o almeno non ha più un ruolo determinante) e il potere si basa principalmente sul consenso popolare. Le uniche forme di protesta ammesse sono quelle pacifiche: manifestazioni, cortei, scioperi, contestazioni, sit in e così via.

 

2) I mezzi di informazione. L’invenzione della stampa fu un fattore determinante nel Rinascimento, in seguito produsse quella spinta liberale che sfociò nella rivoluzione francese. L’avvento dei giornali nel secolo scorso dette un grande contributo allo sviluppo della democrazia. L’importanza dei Mass media è oggi sottolineata dal fatto che sono ritenuti una sorte di “Quarto potere”. La televisione in particolare svolge un ruolo primario nelle campagne elettorali in quanto orienta l’opinione pubblica e crea consensi.

 

3) Il denaro. La ricchezza serve a procurare i mezzi con il quale si può conquistare o conservare il potere. Il denaro permette di condurre compagne campagne propagandistiche, di comprare giornali, programmi televisivi, persino armi e uomini politici, anche se, il più della volte, i finanziatori non si impegnano direttamente nella lotta politica, ma delegano questo compito a uomini fiducia, su quali possono esercitare, poi, pressione.

 

4) La propaganda. L’efficacia della pubblicità nelle battaglie politiche è un dato acquisito su cui non serve soffermarsi a discutere. Oggi le campagne elettorali sono condotte con sistemi analoghi a quelli delle campagne commerciali.

 

5) Le manifestazioni di piazza. Tutti i sistemi per contestare l’azione di chi sta al governo hanno un forte significato politico in quanto richiamano l’attenzione dei mass media e dell’opinione pubblica. Quasi tutte le rivoluzioni, come ad es. quella dei “garofani” in Portogallo, nel 1974, sono iniziate con scioperi, manifestazioni e cortei. È una delle poche armi a disposizione dell’opposizione per contrastare l’azione del governo.

 

6) Il clientelismo. Cercare il consenso popolare tramite metodi clientelari, favorendo gli amici o i membri del proprio clan, è un sistema antico quanto il mondo. In Italia, anche grazie al sistema elettorale, fino a poco tempo fa proporzionale, che favoriva queste pratiche, si è rivelata l’arma di lotta politica di lunga più efficace, spesso l’unica usata. Oggi, almeno a livello nazionale, le cose sono leggermente migliorate, nonostante ciò i metodi clientelari hanno un ruolo importante, soprattutto a livello locale.

 

LE ORGANIZZAZIONI IN LOTTA

Negli stati moderni la battaglia politica si svolge tra “organizzazioni” specializzate, che costituiscono una sorte di eserciti politici. Queste organizzazioni hanno strutture, articolazioni e gerarchie, commisurate alle esigenze della lotta di potere, ed esprimono gli interessi e gli obiettivi di forze sociali diverse, delle quali rappresentano appunto gli strumenti d’azione politica.

Le organizzazioni politiche si possono classificare in tre grandi categorie: i partiti, i gruppi di pressione e i sindacati.

 

    I partiti politici. Hanno come obiettivo la conquista del potere o la partecipazione al suo esercizio. Cercano di procurarsi seggi alle elezioni, di ottenere posti al parlamento per i propri affiliati o Ministeri nel caso vanno al governo.

 

I gruppi di pressione. Non hanno l’obiettivo di andare al potere o di partecipare al suo esercizio, ma tendono a influenzare coloro che lo detengono. Il loro scopo, non tanto mascherato, è difendere o proteggere i propri interessi o quelli dei propri membri.

I gruppi di pressione più numerosi sono le associazioni, che sono un insieme organizzato di persone, le quali, spontaneamente e senza scopo di lucro, decidono di unirsi per perseguire un risultato di comune interesse, di natura religiosa, scientifica, culturale, sportiva ecc.. In Italia esistono anche varie associazioni amatoriali e di categoria, organizzate sia su scala nazionale, sia a livello locale. Quasi tutte in tempo di elezioni appoggiano, spesso non ufficialmente, uno o più candidati.

 

I sindacati. Nonostante siano nati per tutelare gli interessi dei lavoratori e per partecipare, come parte sociale, con il governo e con i rappresentanti degli imprenditori, alla definizione delle scelte su questioni di interesse pubblico relative al mondo del lavoro, svolgono comunque un ruolo politico. Il movimento sindacale italiano è stato per lungo tempo strettamente legato ai partiti (ad esempio la CISL, a prevalenza cattolica, alla Democrazia Cristiana; la UIL, a prevalenza laico socialista, ai partiti socialista e socialdemocratico; la CGIL, la confederazione più a sinistra, al Partito comunista e, in misura minore, ai socialisti).

    Negli ultimi due decenni, a partire dalla chiusura del ciclo di lotte degli anni Sessanta e Settanta, i sindacati, almeno nei paesi industrializzati, hanno assunto un ruolo più definito e omogeneo. Oggi sono coinvolti nelle decisioni che riguardano fatti di interesse economico e sociale, partecipano all’elaborazione del diritto del lavoro, gestiscono direttamente settori della previdenza sociale e forniscono ai propri iscritti servizi di consulenza e assistenza legale.

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